L’EUROPA ASCOLTI I CITTADINI
La stagione politica della Ue è stata ufficialmente aperta, mercoledì scorso, dal discorso sullo stato dell’Unione di Ursula von der Leyen al Parlamento europeo.
Il tono del discorso conferma la nuova assertività dell’Europa che ha visto recentemente uno slancio di solidarietà con la risposta alla pandemia, un ambizioso programma sulla transizione energetica — il cosiddetto «green deal» — e, sempre più lo sforzo di proiettare una visione condivisa nelle relazioni internazionali, inclusa l’aspirazione alla difesa comune auspicata, tra l’altro, anche dal nostro presidente della Repubblica Sergio Mattarella.
Per una europeista convinta come me, questa è una buona notizia, ma è urgente porsi delle domande. Messa da parte la retorica sui valori comuni dell’Unione, questa nuova aspirazione federale è dettata soprattutto dalla consapevolezza che i grandi problemi del nostro tempo — salute, clima, emigrazioni di massa, l’aggressività della Cina e in genere il riorientamento della politica internazionale degli Stati Uniti — non possono essere affrontati da un Paese solo.
L’area dove la necessità dell’azione comune è condizione necessaria alla possibilità di risolvere i problemi che abbiamo di fronte si è allargata rispetto all’inizio degli anni Novanta quando, in ben altro contesto, si sono disegnate le istituzioni europee e firmati i trattati essenziali.
Ma l’allargamento delle competenze a livello europeo avviene senza alcuno sforzo di modifica del quadro legislativo e, soprattutto, senza un approfondimento delle istituzioni democratiche dell’Unione. Certo, i trattati sono soggetti ad interpretazioni e l’Europa ha dimostrato una grande creatività in questo, ma nessuno osa porre il problema di modificarli perché un tentativo del genere andrebbe certamente verso un processo politico complesso e divisivo dagli esiti quanto mai incerti, anche per la necessità dell’unanimità. Il risultato è che il lenzuolo è stiracchiato da tutte le parti e bisogna solo sperare che non si strappi. Ma anche più importante è capire come le nostre democrazie si dovranno adattare a un’Europa che aspira a prendere sempre più decisioni al centro. Le misure necessarie a sostenere il programma Ngeu o il «green deal» avranno conseguenze enormi per la distribuzione del reddito e necessiteranno di tasse a livello europeo (le cosiddette risorse proprie), sicuramente impopolari. Un esercito comune, se si farà, significherà spiegare ai cittadini italiani che combattere per difendere l’Estonia, per esempio, è la stessa cosa che combattere per la difesa dei nostri confini. Siamo sicuri che tutto ciò si potrà fare senza scatenare conflitti difficili da gestire? Gli Stati nazionali hanno strumenti per dare voce alle esigenze di vari gruppi con convinzioni e interessi diversi e per mediarli attraverso i meccanismi delle nostre democrazie, sia quelli della società civile, che quelli del Parlamento. Ma nel momento che le competenze si spostano al centro, gli strumenti a disposizione dei cittadini europei per esprimere le loro preferenze, data la debolezza della società civile europea e del Parlamento di Strasburgo, sono quasi inesistenti.
Nonostante le dichiarazioni di intenti, infatti, i governi portano a Bruxelles (e a Francoforte) istanze nazionali e questo blocca anche le riforme più incrementali, di cui si discute da anni, come per esempio quelle dell’unione bancaria e del patto di stabilità. Ogni riforma è un calvario. Progressi si fanno solo di fronte a grosse crisi che ci piombano addosso dall’esterno, crisi che necessitano azioni immediate, anche se sempre definite temporanee perché questa è la condizione per trovare il consenso per attuarle: temporanea è l’emissione di debito comune, temporanea è la sospensione del patto di stabilità. E così, un’Unione all’origine basata sulle regole si è trasformata piano piano in un’Unione in cui la flessibilità regna e che poggia su una «ambiguità costruttiva» su quale sia il punto di arrivo.
I saggi e gli scettici, che abbondano nel nostro continente, diranno che così si è fatta l’Europa e questa è l’unica strada. Ma siamo sicuri che continuerà a funzionare? Tanto più le sfide sono grandi, tanto più si ha bisogno dei cittadini e della loro voce. Un progetto così ambizioso non può essere trainato solo da un establishment, per quanto illuminato. Il rischio è che l’Europa si avvii a divenire qualcosa di molto diverso da una democrazia liberale, e che — forse esagerando — direi si avvicini di più a un modello asiatico autoritario.
La vera forza di noi europeisti si dimostrerà quando avremo il coraggio di mettere il problema della democrazia politica sul piatto e darle priorità nella sequenza delle riforme.