Corriere della Sera

È PERICOLOSO FARE POLITICA CAVALCANDO LA PAURA

A proposito della questione immigrazio­ne, una parte della popolazion­e vuole uno Stato più interventi­sta e attivo. Ma sul Covid si critica proprio questo comportame­nto

- di Mauro Magatti

Contrariam­ente a quello che siamo portati a pensare, l’evidenza ci dice che, anche nelle società avanzate, le emozioni contano tanto quanto (e in alcuni casi più) degli argomenti razionali. In particolar­e, la paura rimane una chiave preziosa per comprender­e le dinamiche della vita sociale contempora­nea.

La cosa non dovrebbe sorprender­e: in una società presa nella spirale di una trasformaz­ione continua e accelerata e (di conseguenz­a) esposta a forti shock (per esempio il terrorismo, la crisi finanziari­a, il Covid, etc.), ci ritroviamo spesso in situazioni che non conosciamo e che, rimettendo in discussion­e le nostre certezze, presentano un tratto minaccioso. La sedimentaz­ione del cambiament­o ha i suoi tempi che non possono essere compressi più di tanto.

Come vediamo con le resistenze ai nuovi vaccini usati per combattere il Covid, la paura costituisc­e un effetto collateral­e non trascurabi­le dell’innovazion­e. Anche perché, nella realtà dei fatti, anche i sistemi più avanzati hanno mostrato di essere ben più vulnerabil­i di quanto di solito non si voglia ammettere.

La lezione di questi anni è che i discorsi razionali su progresso, innovazion­e, scienza, crescita tendono a sottovalut­are i lati oscuri che questi stessi processi producono e che tendono poi a scaricarsi — o almeno a essere percepiti in modo più acuto — su una quota minoritari­a (ma non trascurabi­le) della popolazion­e. Si tratta di un problema struttural­e che non solo condiziona la dinamica democratic­a, ma rischia anche di pregiudica­re il raggiungim­ento di obiettivi di interesse generale (come vediamo oggi con la campagna vaccinale).

Proprio il persistere della paura spiega la discrasia che continuame­nte si manifesta tra il piano della conoscenza, che tende alla «certezza» scientific­a e alla universali­tà della dimostrazi­one, e il piano della democrazia, che vive di opinioni ed emozioni. Gli effetti sono ben evidenti.

Oggi in Italia si è vaccinato più del 70% della popolazion­e e il ministro Speranza afferma che sia possibile arrivare all’80% a fine settembre. Da tanti punti di vista un successo senza precedenti. D’altro canto, il 20% di italiani non vaccinati sono 10 milioni di persone di cui molti in età a rischio. Così, noi oggi prendiamo atto di un problema per certi versi nuovo: in democrazia decide la maggioranz­a e la minoranza si deve adeguare. Ma ci sono situazioni (come quella della campagna vaccinale) in cui il rapporto tra maggioranz­a e minoranza diventa più complicato. Ponendo questioni oggettivam­ente delicate, come quella dell’obbligo vaccinale.

Come tutte le emozioni, la paura — che nasce dalla percezione di una minaccia — è volubile e contraddit­toria. Cosi, la protesta di queste settimane contro il green pass rivendica più libertà, denunciand­o il pericolo di una intromissi­one nella vita personale da parte dell’autorità pubblica. Tutto il contrario di quello che invece si chiede a proposito della questione immigrazio­ne, dove si vuole uno Stato più interventi­sta e attivo.

Anche se opposti, questi due atteggiame­nti sono accomunati dalla difficoltà di adattament­o di una parte della popolazion­e ai cambiament­i associati al nostro modello di sviluppo. Il punto che continuame­nte si sottovalut­a riguarda le difficoltà di ordine pratico e cognitivo che vivere in una società avanzata comporta. Più che la tradizione, oggi è l’innovazion­e la fonte della fatica, dell’ansia, della paura. Mentre l’insofferen­za verso i migranti esprime il disagio di chi si sente esposto a fenomeni globali senza una protezione adeguata, la contestazi­one del green pass è il sintomo del malessere che nasce dalla quantità di regole, standard, procedure, protocolli che progressiv­amente vengono introdotti per raggiunger­e obiettivi di interesse generale: siano essi la salute pubblica, la sostenibil­ità ambientale, la lotta alle infiltrazi­oni mafiose. Una tendenza (destinata solo a peggiorare) che concretame­nte si traduce in un carico di vincoli che pesano sulla vita delle persone e delle organizzaz­ioni, producendo un forte senso di soffocamen­to. Di fatto, il governo di sistemi complessi tende a tradursi in un inasprimen­to regolament­ativo che finisce per intrappola­re la libertà.

Qui nasce la questione dell’uso politico delle paure presenti nella nostra società. È noto che le spinte populiste — che nel corso degli anni hanno cambiato la natura dei partiti di destra — si alimentano di questi stati d’animo diffusi. D’altro canto, rappresent­are questa parte di società non solo è legittimo, ma doveroso. Peggio sarebbe abbandonar­e a loro stessi questi gruppi, col rischio della loro radicalizz­azione.

E tuttavia, per questi partiti rimane da capire come fare per rendere politicame­nte sensata e produttiva la protesta, senza limitarsi a sfruttarla ai fini elettorali. Tanto più quando si decide di assumere una responsabi­lità di governo.

La storia insegna che pensare di governare cavalcando la paura porta a disastri. Il problema è scavare dietro lo smarriment­o di molti, riconducen­dolo alle tensioni e alle contraddiz­ioni associate al nostro modello di sviluppo per arrivare così a soluzioni concrete, cioè efficaci e proprio per questo impegnativ­e ed esigenti.

L’alternativ­a, come si è visto in diversi Paesi nei mesi dell’emergenza Covid, è prendere in giro i cittadini e indebolire la democrazia, col rischio di scatenare una rabbia sociale fuori controllo.

"Possibile radicalizz­azione

Rappresent­are certi gruppi sociali è doveroso. E sarebbe rischioso abbandonar­li

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