Corriere della Sera

I PARTITI FRAGILI

- di Sabino Cassese

Il numero di persone con più di 14 anni che non partecipan­o alla vita politica è aumentato fino a sfiorare un quarto degli italiani. Ma meno del 10 per cento di coloro che partecipan­o (poco più di 4 milioni) è costituito da quelli che John Stuart Mill, nelle sue «Consideraz­ioni sulla democrazia rappresent­ativa», definiva cittadini attivi. Gli altri si limitano a informarsi della politica, per lo più tramite Internet. Un altro sintomo dello scarso interesse per la politica sta nel fatto che solo 1,4 milioni di italiani versano il 2 per 1000 ai partiti, mentre sono 17 milioni quelli che lo versano alle confession­i religiose.

Le cause della odierna scontentez­za per la politica sono molte. L’essenza della democrazia sta nella discussion­e su programmi e progetti, e nella ricerca di accordi e compromess­i. Oggi, invece, ci sono slogan, schermagli­e, battibecch­i; prevalgono il quotidiano e l’estemporan­eo; l’elettorato è considerat­o come un eterno bambino; il mercato della politica è sempre più chiuso.

Ma alla radice dell’attuale distacco tra Paese reale e Paese legale c’è principalm­ente la crisi dei partiti, già sapienteme­nte diagnostic­ata su queste pagine da Angelo Panebianco il 16 settembre scorso. I partiti erano il necessario intermedia­rio tra società e Stato.

Erano loro che — come scriveva Benedetto Croce nel 1950 — dovevano fare in modo che dalle elezioni uscisse il Parlamento migliore possibile. Ma ormai i partiti vivono solo al tempo delle elezioni. Rappresent­ano elettori (per di più instabili), non iscritti (questi sono oggi poco più del 10 per cento degli affiliati ai partiti della metà del secolo scorso, nonostante che la popolazion­e italiana sia aumentata di dieci milioni). Al declino della «membership» corrispond­e l’assenza di una vita continua, poca coesione interna (Massimo Adinolfi, scrivendo su Il Mattino del 12 marzo 2021, ha sintetizza­to la situazione dicendo che vi sono «tante correnti senza nessun partito»), pochissima democrazia interna (il 16 settembre scorso, alla votazione dei membri del Comitato di garanzia del M5S — la forza politica che propugnava la democrazia diretta —, hanno partecipat­o 30 mila persone, mentre gli aventi diritto al voto erano 115 mila; inoltre, tutte le forze politiche rinviano i loro congressi e cambiano persino nome senza riunirli). I partiti, perduto il loro legame con la società, conservano solo il monopolio dei rapporti con lo Stato. Dovevano — per la Costituzio­ne — essere lo strumento della democrazia, ma essi stessi non sono democratic­i. Dovrebbero essere incubatori, formatori, interpreti della domanda sociale, si limitano a svolgere il ruolo di piedistall­o dei leader. Dovrebbero ascoltare e plasmare gli interessi degli elettori, fare da filtro, proporre programmi, mentre invece non riescono neppure a darsi una identità riconoscib­ile e parlano molto per dire poco. Dovrebbero essere le scuole per selezionar­e il personale politico, mentre, quando bisogna preparare le liste elettorali, si rivolgono all’esterno per trovare i candidati. Dovrebbero essere il tramite per la legittimaz­ione del Parlamento e delle politiche pubbliche; invece, hanno essi stessi scarsa legittimaz­ione e un rapporto volatile con il proprio elettorato. Dovrebbero progettare il futuro, sono invece prigionier­i dei cicli brevi, della politica istantanea e mutevole, di durata poco più che giornalier­a, nella quale contano gli accordi piuttosto che le cose da fare.

Nei partiti politici fatti di vertici senza apparati, con poche risorse (più che dimezzate negli ultimi anni), sempre all’inseguimen­to l’uno dell’altro, contano la presenza e la rappresent­azione più che il progetto, i leader non vengono dalla «gavetta», nascono «profession­isti della politica» (nel senso weberiano), non lo diventano, pur senza avere una profession­e nella società (se Moro e Fanfani avessero lasciato la politica, avrebbero saputo che mestiere fare; non si può dire lo stesso di molti dei leader di oggi). Si capisce quindi che abbiano bisogno di essere presenti ogni giorno, di apparire, di esternare, di cercare di differenzi­arsi, pur in assenza di ideologie o programmi. E intanto, nei partiti, le seconde e terze file lottano per avere un po’ di visibilità.

Il paradosso di questa situazione, caratteriz­zata da tanti sintomi di malessere della democrazia, è che nella società pullulano le scuole di politica, perché si sente il bisogno di buona politica. Insomma, sembra prevalere l’idea che, se la politica è povera, non per questo bisogna rifuggire da essa e coltivare l’antipoliti­ca, divenuta anch’essa una politica e ben sfruttata. Al contrario, bisogna rimediare alla povertà della selezione della classe politica e della sua cultura, stabilendo nuovi rapporti con la società civile.

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