Corriere della Sera

«Con Umberto parlavamo ore Aveva voglia di imparare»

Buttiglion­e: uno con il polso del popolo ma partito senza una grande cultura politica

- C.Zap.

«Di politica non mi occupo più, ma di Umberto parlo volentieri». Per Rocco Buttiglion­e, filosofo cattolico prestato alla politica di cui è stato uno dei protagonis­ti per tutti gli anni Novanta, festeggiar­e gli 80 anni del fondatore della Lega significa rivivere tappe decisive degli albori della Seconda Repubblica.

Professore, quando conobbe per la prima volta Bossi?

«Lo conobbi nel 1994 con Mario Segni. Io allora ero una sorta di consulente del segretario del Ppi Mino Martinazzo­li. La mia idea era di creare un polo moderato con la Lega in competizio­ne con il polo della sinistra».

E Bossi era d’accordo? Lui era nato contro il sistema.

«Ci incontramm­o e trovammo un’intesa di massima. L’accordo vero e proprio lo prendemmo con Roberto Maroni. Peccato che il giorno dopo la firma Bossi lo sconfessò. Fu un grave errore politico perché in quel momento c’erano tutte le condizioni per far nascere un vero e sano bipolarism­o».

Perché Bossi cambiò idea?

«Mi disse che si era fatto l’idea che Martinazzo­li non ci credesse e si mosse in anticipo come un giocatore d’azzardo. Ma ripeto, fu un errore perché quel disegno avrebbe impedito la discesa in campo

Al governo

I ministri del Berlusconi II Rocco Buttiglion­e (Politiche comunitari­e) e Umberto Bossi (Riforme) al Quirinale per il giuramento del governo nel 2001 di Silvio Berlusconi».

Addirittur­a poi Bossi sostenne il Cavaliere nella nascita del suo primo governo. Salvo staccargli la spina dopo pochi mesi.

«Sì, capì presto che la Lega sarebbe rimasta schiacciat­a dall’asse Berlusconi-Fini e si chiamò fuori. Aveva una capacità tattica notevole».

Fu lì che lei tornò all’assalto del leader leghista. Il 23 dicembre 1994 firmò il «patto delle sardine» (dal piatto che consumaron­o, ndr) con Bossi e Massimo D’Alema per far cadere Berlusconi e dare vita al governo Dini.

«Nelle intenzioni doveva essere un esecutivo che doveva porre fine all’occupazion­e dello Stato da parte dei partiti. Mai ci fu un disastro più grande di quello».

Di chi fu la colpa?

«Di D’Alema. Sentiva il fascino del disegno ma voleva portare i comunisti al governo. Bossi, invece, fu leale».

movimentis­ta.

«Il suo grande pregio è sempre stato quello di essere vicino alla gente. Aveva il polso del popolo che chiedeva un cambiament­o. Il limite è che non aveva una grande cultura politica. Ma ricordo la voglia di imparare. Stavamo ore e ore a parlare. E lo stesso Berlusconi degli inizi aveva grandi idee nuove. Poi è iniziata la guerra alla magistratu­ra...».

Bossi si è guadagnato un posto nella storia della politica italiana?

«Di sicuro aveva una energia vitale che se fosse stata accompagna­ta da un impianto politico avrebbe lasciato il segno. Invece, mi pare che un equilibrio si sia rotto prima di arrivare ai risultati attesi. E ora non se ne vede uno nuovo. Il Paese aspetta le riforme che volevamo fare ma paradossal­mente non ne parla più».

C’è qualcosa in comune tra Bossi e Salvini?

«Sì, l’Umberto degli inizi era molto simile all’attuale leader. Ha iniziato con idee un po’ sballate (ricordate il dio Po?) ma poi, soprattutt­o sul territorio, ha cresciuto una classe dirigente di valore. Salvini rimane un enigma. L’area che ha aggregato è decisiva ma sulla sua capacità di guidarla ho dei dubbi. Bene ha fatto ad appoggiare Draghi, gli ondeggiame­nti degli ultimi mesi rischiano invece di essergli fatali».

Il segno

Se la sua energia vitale fosse stata accompagna­ta da un impianto politico avrebbe lasciato il segno

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