Alla guerra come alla vita
Lilli Gruber racconta Martha Gellhorn, tra le più celebri corrispondenti belliche
«Seguirò la guerra ovunque mi porti». Martha Gellhorn ha 29 anni quando parte per la Spagna nel 1937. Nata a St.Louis, figlia di un ginecologo di origini ebraico-tedesche e dell’adorata madre Edna, passa la gioventù tra scarso interesse per l’università e lunghi viaggi in Europa. Vuole «andare a vedere». Non sa ancora chi è e cosa diventerà. E non sa nemmeno che proprio lì, a Madrid, tra le macerie della Guerra Civile, dovrà misurarsi — oltre che con le bombe — con un’altra sfida. Un amore, quello per Ernest Hemingway, che le lascerà la consapevolezza di quanto gli uomini siano diversi dalle donne, soprattutto quando si parla di guerra, e di quanto poco sia sopportabile per i primi che le seconde riescano a fare lo stesso mestiere, spesso anche meglio, senza per questo diventare le protagoniste della storia.
A raccontare una delle più grandi corrispondenti di guerra, in un saggio profondo e intelligente, La guerra dentro, da domani nelle librerie per Rizzoli, è un’altra giornalista che ha conosciuto il fronte e che ha fatto della sua carriera giornalistica una leva di forza per i diritti delle donne. Lilli Gruber rende a Martha Gellhorn omaggio, sgomberando il campo dallo stereotipo della donna capace di diventare grande solo per amore. Perché la guerra è lì fuori ma è anche dentro. Per tanti, lui compreso, Martha era solo «la moglie di Hemingway» — una delle mogli — forse l’unica che è riuscita ad amarlo pur vedendone i limiti e senza soccombere al suo ego. Ma Gellhorn è stata molto di più, come racconta Gruber.
In una lettera alla sua amica Eleanor Roosevelt definisce il matrimonio «una brutalizzazione». Per lei non ci può essere amore senza indipendenza. «Devo vivere a modo mio, non solo a modo tuo, o non ci sarebbe nessuna me per amarti. Non ti piacerei davvero, se costruissi un bel muro alto di pietra intorno alla finca e mi mettessi lì seduta» scriverà a Ernest. E allora Martha parte. Sul confine della Finlandia durante l’invasione russa (trovando il tempo per una cena con Montanelli) e accanto alle truppe alleate sul fronte italiano; ed è la prima reporter donna a sbarcare sulle spiagge della Normandia (prima ancora di Hemingway, suo rivale sul fronte). E ancora. È la prima a entrare a Dachau liberata dagli americani. Fervente antinazista, si lascia coinvolgere, si appassiona, si rimbocca le maniche e aiuta le infermiere italiane a Montecassino, dando loro voce, mentre nessuno dei suoi colleghi si cura di loro.
Per Martha Gellhorn conta la verità. Dalla rivalità con Hemingway si sfila, a testa alta, soffocando l’amore per non finire distrutta. Dopo la Seconda guerra mondiale è stanca, fidarsi del genere umano — e di quello maschile in particolare — è difficile.
Ma non si ferma. Va in Vietnam, decisa a smascherare le menzogne della propaganda statunitense. Fino a El Salvador e a Panama, dove coprirà l’invasione, all’età di ottantuno anni. Pubblica cinque romanzi, quattordici racconti lunghi, due raccolte e tre volumi di saggi. Una carriera attraversata dalla gloria e dalla tragedia, segnata dalla solitudine delle donne indipendenti e controcorrente. Ma che lascia ai suoi lettori centinaia di reportage pubblicati dal «Collier’s», per il quale, con precisione e rigore, racconta la guerra dando voce ai civili, intrappolati nel conflitto.
Nelle pagine di La guerra dentro la voce della reporter statunitense si intreccia con quella di Lilli Gruber che, mettendosi in secondo piano, nonostante l’esperienza, interpella altri grandi corrispondenti per trasmettere al lettore il senso di un lavoro, al di là del romanticismo e della stereotipizzazione. Perché se la strada per gli inviati di guerra è sempre stata in salita, tanto più lo è stata (e lo è ancora) per le donne.
«Condivido la rabbia di Martha per la misoginia e l’idiozia delle gerarchie militari dell’epoca. Ci vorrà tempo, non solo negli Stati Uniti, perché le donne possano combattere. Fortunatamente nel giornalismo i progressi saranno più rapidi. Ma è innegabile che la sufficienza con cui Martha veniva guardata da Hemingway e dalla maggioranza dei colleghi maschi sia stata a lungo l’atteggiamento dominante. Sulle sue tracce, abbiamo dovuto lottare per conquistare il diritto di andare in prima linea. Il diritto di osservare il mondo con i nostri occhi e di descriverlo con la nostra voce. Rischiando nelle zone di guerra di essere rapite, ferite e uccise, proprio come gli uomini», scrive Gruber.
Ma c’è un altro lato della medaglia di Gellhorn che Gruber mette in risalto. Ed è il desiderio e la
Il fronte Parte per la Spagna nel 1937: «Seguirò la guerra ovunque mi porti». Non s’è più fermata
necessità di non vivere un’esistenza convenzionale e di concedersi, come linfa vitale, la possibilità di vivere avventure precluse ai più. Non ricca ma privilegiata e figlia di un’America fatta, all’epoca, di libertà e ideali, Martha scrive: «Probabilmente il motivo per cui sono sempre stata così felice in guerra (oltre al fatto di non essere mai stata colpita) è che la guerra è la più grande di tutte le follie e consente a chi la vive di gettar via l’intero armamentario della quotidianità e comportarsi da folli. Significa esserlo, folli? Immagino dipenda dai valori». Ed è la sua «follia», la sua determinazione e la sua inquietudine che la portano in cinquanta Paesi diversi e a mettere su casa in cinque o sei località remote, tra cui l’Africa, il Galles e Cuernavaca in Messico, ad avere svariati mariti, amanti e decidere di adottare un figlio. Fino al giorno in cui — ormai quasi cieca e novantenne — sceglierà il momento in cui andarsene ingoiando una pillola di veleno.
L’eredità di Gellhorn è però soprattutto quella che la reporter lascia a chi ancora crede in questo mestiere. Di battaglia in battaglia, la vita di Martha insegna la bellezza e la responsabilità del giornalismo in un tempo che ha più che mai bisogno di verità e che sempre più viene martirizzato dal refrain che «tanto andare sul campo non serve più». Niente di più sbagliato, griderebbe lei anche oggi. Perché il lavoro di Gellhorn dimostra proprio il contrario, regalando un insegnamento profondo a coloro che sentono il dovere di raccontare i più deboli: seguire la guerra ovunque ci porti.