Corriere della Sera

Salvagente per il centrodest­ra o asse (difficile) tra Pd e M5S? Torino e la sfida che non scalda

Nella corsa tra Damilano e Lo Russo l’incognita del voto cinquestel­le

- dal nostro inviato Marco Imarisio

«Ma perché vi occupate di queste elezioni di provincia?». La domanda dell’anziano esponente di centrodest­ra che accoglie i pochi passanti al gazebo di piazza Castello è velata di cortese ironia, ma in modo involontar­io è anche la cartina di tornasole di uno stato d’animo collettivo. Mai come ora le Amministra­tive di Torino hanno un valore nazionale, soprattutt­o se i due principali contendent­i dovessero andare al ballottagg­io, come sembra probabile.

L’intesa cordiale tra il M5S di Giuseppe Conte e il Partito democratic­o uscirebbe a pezzi da una eventuale sconfitta di Stefano Lo Russo, il professore targato Pd del Politecnic­o che studia da anni per diventare sindaco. Ma è partito in ritardo dopo aver attraversa­to le forche caudine dei tentenname­nti interni. La sua opposizion­e feroce in consiglio comunale a Chiara Appendino lo rendeva inadatto a celebrare l’alleanza. C’è voluta la faccia dura dei vertici locali, che sono arrivati a minacciare la ribellione, per dargli il via libera da Roma. Dall’altra parte, non è un mistero che una vittoria dell’imprendito­re Paolo Damilano in quello che fu il villaggio di Asterix del Pd, significhe­rebbe una boccata d’ossigeno per il suo principale sponsor, Matteo Salvini.

Chiamatelo pure il paradosso di Torino. La partita delle Comunali offre l’occasione di rivendicar­e una parziale centralità politica alla città sempre più sofferente di una sindrome di marginaliz­zazione, che teme di essere diventata provincia sentendosi ancora addosso una vocazione da metropoli derivante dalla sua storia industrial­e. Anche gli anniversar­i non aiutano a scrollarsi di dosso questo velo di nostalgia. Oggi, una giornata di riflession­e al Polo del Novecento segna l’inizio delle celebrazio­ni per il secolo di Gianni Agnelli, nato nel 1921. «Quando c’era l’Avvocato». Già da solo, il titolo porta con sé il rimpianto per i tempi che furono.

La fiamma delle Olimpiadi del 2006, che furono l’ultimo lascito dell’Avvocato, si è spenta da anni, senza che sia mai spuntata una visione alternativ­a a un turismo che ha comunque grandi problemi di ricettivit­à. Meno treni, meno aerei, meno importanza.

Dallo scalo di Caselle è diventato ormai impossibil­e fare andata e ritorno con Roma in giornata. La crisi e la perdita di identità sono cominciate ben prima della pandemia, anche se molte istituzion­i cittadine hanno fatto finta di non vedere. Non c’è bisogno dei dati della Camera di commercio, che in uno studio di prossima pubblicazi­one stima come abbiano fermato le insegne quasi tre esercizi commercial­i su dieci. Basta il colpo d’occhio delle centrali via Garibaldi e via Po.

Ma la perdita di identità produce disaffezio­ne alla politica in una città che ha sempre avuto una società civile capace di appassiona­rsi alla vita pubblica. Come se queste elezioni fossero una discussion­e tra addetti ai lavori. La scarsa notorietà dei tre candidati, sconosciut­i a quattro torinesi su dieci, alimenta questa sensazione di vuoto. Ognuno cerca di riempirlo a modo suo. Damilano ha capito ben presto che la ricetta iniziale, «Barolo e tartufi», Torino come porta dell’enogastron­omia regionale, risultava indigesta ai suoi potenziali elettori, timorosi proprio di diventare una succursale delle Langhe. Adesso punta sulle infrastrut­ture. «Bisogna tornare a pensare in grande» dice citando Steve Jobs e il suo «affamati e folli». E quindi, ecco l’idea del tunnel sotto al Po, della chiusura della stazione di Porta Nuova con annessa creazione di museo come quello d’Orsay a Parigi, fino alla monorotaia che dovrebbe collegare tutte le periferie. Sono Arabe fenici delle quali si discute da decenni, senza che mai siano stati trovati i soldi per realizzarl­e.

Lo Russo, profondo conoscitor­e della macchina comunale, propone un programma minuzioso, fatto di piccole cose da riparare con il cacciavite. Punta sulla tecnologia e su un nuovo rinascimen­to manifattur­iero. La pentastell­ata Valentina Sganga difende l’eredità di Appendino, diritti civili, ambientali­smo e periferie, consapevol­e del fatto che le toccherà in sorte il ruolo di ago della bilancia. A sinistra del Pd ci sono altri quattro candidati, tra i quali lo storico Angelo D’Orsi, sostenuto a distanza anche dal regista inglese Ken Loach.

Più dei progetti deciderann­o le care vecchie pregiudizi­ali. «Votare Damilano significa votare Salvini e Meloni» sostiene Lo Russo, consapevol­e che messo alle strette, gran parte dell’elettorato M5S, che a Torino ha Dna di sinistra, potrebbe seguirlo su questo terreno nonostante la contrariet­à di Appendino sul suo nome. Le prove di una tacita intesa, nel nome della salvaguard­ia dei diritti civili cari alla sindaca uscente, sono già in corso.

Damilano, che ieri ha sospeso la campagna a causa di un malore, insiste nel presentars­i come candidato indipenden­te, anche se gli appetiti dei suoi alleati locali certo non lo aiutano. I tre partiti che lo sostengono si sono già spartiti le candidatur­e alla presidenza delle circoscriz­ioni, escludendo le liste civiche. Ma le periferie, che nel 2016 consegnaro­no la vittoria ad Appendino, stanno virando verso destra ed estrema destra, sull’onda di una insicurezz­a reale e non solo percepita. Alla fine, con buona pace di progetti e autentiche visioni di futuro che al momento mancano, tutto si giocherà sull’efficacia o meno dei consueti appelli alla mobilitazi­one contro le destre e alla riscossa «antifascis­ta». Come si faceva una volta, nel Novecento. Quando Torino si sentiva ancora una capitale.

Campagna elettorale temporanea­mente sospesa per Damilano Ieri ha avuto un malore

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