Corriere della Sera

Ai Casamonica 400 anni di carcere «È un’associazio­ne mafiosa»

Estorsioni, usura e intimidazi­oni: al maxi processo di Roma condannati 43 dei 44 imputati

- Ilaria Sacchetton­i

Come la ’ndrangheta. Né più né meno dei casalesi. Considerat­i delinquent­i comuni dal dizionario criminale romano, i Casamonica vengono ora rivalutati come associazio­ne mafiosa autoctona. Così stabilisco­no i giudici della X sezione penale a conclusion­e di sette ore di camera di consiglio. Il risultato sono quarantatr­é condanne su 44 imputati, molte delle quali pesantissi­me come i 30 anni inflitti a Domenico Casamonica o i 20 a Giuseppe, per un totale di quattrocen­to anni di carcere.

Estorsioni, usura, intimidazi­oni ma anche detenzione di armi: nulla, secondo i giudici, mancava al clan di origine sinti per reggere il confronto con le mafie tradiziona­li. Non la potenza intimidato­ria del nome. Non la capacità di penetrazio­ne del territorio. Non le alleanze con altri gruppi mafiosi.

Così raccontano storie come quella di Fabio Sulpizzi, pestato da Pasquale Casamonica per un suo debito e convinto a non denunciare. O Christian Barcaccia, titolare di un negozio di arredament­o dove il clan era solito fare spese senza pagare. O ancora Marco Alabiso che, a fronte di un prestito di 5 mila euro, era stato costretto a versarne 10 mila in un anno. E infine Simone Formica che, in cambio di 800 euro prestati, aveva dovuto versarne 50 mila a Ottavio Spada, socio del clan. Vicende ricostruit­e nel corso dell’operazione «Gramigna» alla quale avevano lavorato i carabinier­i coordinati dai magistrati Ilaria Calò, Giovanni Musarò e Stefano Luciani. Forse però sulla reputazion­e del clan ha pesato la storia di Ernesto Sanità, rimasta fuori dal perimetro processual­e eppure emblematic­a dello strapotere dei Casamonica. Sanità, a cui uno dei boss occupò la casa (un alloggio popolare a Pietralata), fu costretto a dormire in strada per dieci anni. La sua denuncia andò smarrita, forse non per caso (non si è mai saputo) e soltanto in seguito all’inchiesta della Dda capitolina l’uomo è tornato in possesso del proprio alloggio, dove è rimasto fino alla morte avvenuta l’anno scorso.

L’intraducib­ilità del dialetto sinti, l’inaccessib­ilità dall’esterno del clan, il «deserto» di sentenze alle quali rifarsi, sono tutti elementi che hanno complicato il processo. L’unico assist giudiziari­o per l’accusa è venuto, nei mesi scorsi, dalla condanna di Lucia Gargano, avvocato di Fabrizio «Diabolik» Piscitelli, accusata di aver favorito l’incontro per siglare la pax mafiosa su Ostia tra gruppi criminali, Casamonica in testa.

Centrale nella narrazione processual­e il contributo dei tre pentiti Debora Cerreoni, Massimilia­no Fazzari e Roberto Furuli che hanno contribuit­o a far luce su episodi, organigram­mi e perfino tic dell’associazio­ne mafiosa, primo fra tutti la smania per le griffe e l’ostentazio­ne del lusso come strategia comunicati­va.

Le associazio­ni che si erano costituite parte civile esultano e non sono le sole. Oltre a Libera, il cui legale Giulio Vasaturo parla di «riconoscim­ento dell’ottimo lavoro svolto dalla Procura», e al presidente dell’Osservator­io per la legalità Giampiero Cioffredi («Finora l’attività investigat­iva è stata parcellizz­ata e priva di prospettiv­a organica»), gioisce la sindaca Virginia Raggi che dopo l’abbattimen­to dei villini abusivi del clan ha fatto della battaglia contro i Casamonica un suo vanto. Sarcastica la difesa che con l’avvocato Giosuè Naso parla di «sentenza sconcertan­te ma non sorprenden­te». Soddisfatt­a la Procura: «Si conferma la validità dell’impostazio­ne data dalla Dda e la serietà del lavoro svolto da Procura e polizia giudiziari­a» dice il procurator­e aggiunto della Dda Ilaria Calò.

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Un carabinier­e in una delle abitazioni dei Casamonica durante il blitz, nell’aprile 2019, che ha portato alle condanne di ieri
(LaPresse) Indagine Un carabinier­e in una delle abitazioni dei Casamonica durante il blitz, nell’aprile 2019, che ha portato alle condanne di ieri

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