Addio a Vichi, il re della Mivar Suoi gli ultimi televisori italiani
Aveva 98 anni, ha lavorato fino alla fine. Il boom degli anni 60, poi la crisi
Un visionario: tanto da fondare un’azienda di radio (e poi di televisori) nel 1945, in un’Italia depressa e devastata dalla Seconda guerra mondiale. Uno stakanovista: lavorava sempre, anche a 98 anni che aveva compiuto lo scorso febbraio e fino a pochi mesi fa, prima di essere ricoverato in ospedale. Aveva un’attenzione maniacale al risparmio (gustava anche l’ultimo granello di zucchero dal cucchiaino con cui aveva girato nel caffè), ma il cuore era generoso: tante volte ripianò personalmente i debiti della società e tante volte aiutò le famiglie dei suoi operai.
È morto ieri Carlo Vichi, il re della Mivar, la «Milano Vichi Apparecchi Radio». Nel capoluogo lombardo Vichi, nato a Montieri in provincia di Grosseto, ci era arrivato da bambino e qui giovanissimo si era sposato nel 1944. Aveva 21 anni, lei diciotto ed era sua cugina Annamaria. Il gioielliere dove comprarono le fedi disse: «Ostrega, nanca quarant’anni in du» (Cavolo, nemmeno 40 anni in due). Un amore durato per sempre, celebrato con la festa per i 75 anni di matrimonio con un brindisi in fabbrica in compagnia dei figli Luisa, Maria, Valeria e Girolamo, degli amici e degli operai. Vichi era rimasto un uomo semplice: famiglia, azienda e fabbrica erano la sua vita.
Sempre qui alla Mivar, Vichi aveva dichiarato di voler avere il funerale («anzi, una bella festa») e di non gradire la presenza delle «autorità». La sede di quella che è stata l’ultima azienda a produrre televisori made in Italy è ad Abbiategrasso e c’è da scommettere che chi potrà partecipare alle esequie non mancherà. Alla Mivar, che ha percorso la parabola dell’industria italiana dal boom degli Anni 60 alla concorrenza delle low cost asiatiche, si sono date il cambio ai cancelli complessivamente seimila persone.
Nel periodo d’oro degli Anni 70 e fino al 1998, quando dallo stabilimento uscirono 917 mila apparecchi a tubo catodico, Vichi era diventato il primo produttore di tv in Italia. E sognava in grande. Nel 2001 era stata completata la «Fabbrica ideale», progettata interamente da lui, che ingegnere non era e nemmeno architetto. Ma la produzione non andò mai lì perché non vuole «che insieme ai lavoratori ci entrino anche i sindacati». Di certo Vichi non si era mai preoccupato di essere «politically correct». Pensava: «In fabbrica si dice sissignore, come nell’Esercito, nessuno può venire a comandare in casa mia». O forse non trasferì mai la produzione perché già sapeva che prima o poi avrebbe chiuso. «Non posso più produrre televisori. Spendo dieci e posso vendere a otto». Le linee di produzione si sono fermate nel 2013, con dodici operai rimasti a occuparsi solo di assistenza e manutenzione.
Eppure Vichi si sentiva ancora indomito. «Sono sempre stato un designer. E poi senza lavoro c’è il nulla». Così si era inventato gli «arredi razionali»: tavoli con sedie estraibili più alte del normale «per rimediare alla sgradevole sensazione di sottomissione che si prova stando seduti fra persone che stanno in piedi». L’acronimo non aveva dovuto cambiarlo: Mivar si scriveva allo stesso modo ma si leggeva «Milano Vichi Arredi Razionali». Smetterò di lavorare solo «quando mi trasformerò in spirito».