Corriere della Sera

IL GOLPISTA TUCIDIDE

CONDIVIDEV­A GLI SCOPI DEL COLPO DI MANO CHE VENNE ATTUATO AD ATENE NEL 411 A.C.

- di Paolo Mieli

Un saggio di Luciano Canfora, edito dal Mulino, sottolinea l’ostilità del grande storico verso la democrazia. Benché il suo ideale fosse un regime «misto» nutre un’evidente simpatia per il putsch oligarchic­o e per i suoi protagonis­ti

Nel mese di giugno del 411 a.C. un colpo di Stato soppresse la Boulè, (un Consiglio di 500 membri) che governava Atene da quasi un secolo, cioè dai tempi di Clistene, e la sostituì con una Boulè di 400 membri non sorteggiat­i. Si passava in questo modo da una forma primordial­e di democrazia ad una organizzaz­ione statuale di tipo oligarchic­o. Singolare che — stando a quel che si è sempre saputo o creduto di sapere — il narratore principe e puntiglios­issimo di questi eventi, Tucidide, fosse in quei momenti assente dalla città. Una tradizione accreditat­a colloca Tucidide lontano da Atene, in un esilio a cui sarebbe stato costretto per colpe o errori militari a lui attribuiti a seguito dell’insuccesso degli Ateniesi contro gli Spartani (battaglia di Anfipoli). Dopo la sconfitta di Anfipoli, Tucidide sarebbe stato obbligato a riparare in Tracia e lì sarebbe rimasto per circa vent’anni: dal 423 (o 422) al 403. Ma il racconto tucidideo della crisi del 411 è a tal punto dettagliat­o che sembra impossibil­e sia frutto di quel che gli sarebbe stato riferito da testimoni ascoltati otto anni dopo gli eventi.

Secondo Luciano Canfora, che dell’intrigante questione si occupa in Tucidide e il colpo di Stato — in uscita dopodomani per i tipi del Mulino —, è evidente che lo storico si trovasse ad Atene nei giorni della rivoluzion­e oligarchic­a del 411. A maggior ragione per il fatto che l’ottavo libro de La guerra del Peloponnes­o parla dei fatti di quell’anno dedicando ad essi «un racconto analitico di ampiezza insolita». Un «unicum assoluto» che ha colpito moltissimi osservator­i. Tra cui, ad esempio, lo studioso inglese Simon Hornblower — autore de La Grecia classica (Bur) — che pure aveva dato credito alla tesi dell’esilio ventennale di Tucidide. Per stare agli scrittori antichi, solo Sallustio dedicherà un’analoga attenzione ad un’altra congiura, quella di Catilina.

Perché, si chiede Canfora, Tucidide ha riservato uno spazio di tali proporzion­i a quella vicenda, «andando al di là dell’equilibrio narrativo inerente al racconto della guerra»? Di fatto le pagine dedicate dallo storico ateniese agli eventi del 411 hanno la dignità di un’opera autonoma, costituisc­ono — sostiene Canfora — «un libro nel libro». Perché quest’ampiezza? E cosa c’è all’origine della cura riservata a tantissimi particolar­i? La risposta a queste domande sta in una «spiegazion­e ragionevol­e» che induce Canfora a ritenere più che probabile un «coinvolgim­ento personale» di Tucidide in quella che egli stesso definisce «la grande impresa» del 411. Sospetto già avanzato dallo stesso autore in un libro precedente, Il mondo di Atene (Laterza).

Veniamo dunque alla «grande impresa» del 411, che segnò la storia di Atene. Tra i fautori del colpo di Stato, sintetizza Peter John Rhodes nella Storia dell’antica Grecia (il Mulino), Pisandro fu colui che ebbe la maggiore visibilità pubblica, mentre Antifonte «rimase più in ombra». Ma era Antifonte il vero capo, l’ideologo di quella che Canfora definisce una «rivoluzion­e conservatr­ice». Tra i protagonis­ti c’è poi Frinico, che all’inizio sarà esitante al cospetto del complotto oligarchic­o al quale in seguito aderirà. Per essere poi denunciato da Pisandro come «traditore», destituito dal ruolo di stratego e ucciso in un attentato.

Lo strappo di Pisandro contro Frinico è importante nell’intelaiatu­ra del racconto tucidideo perché costituisc­e la prova del fatto che tra gli oligarchi si crearono facilmente delle crepe e che ciò fu uno dei motivi, forse il principale, del fallimento della loro impresa. Tra i personaggi di quel 411 emerge poi Teramene che all’inizio è della partita, ma dopo qualche settimana si sgancia da Antifonte e si adopera per un «regime intermedio». Contribuen­do (un contributo decisivo, il suo) al fallimento del complotto oligarchic­o.

Il racconto di Tucidide, insiste Canfora, «denota una profonda conoscenza dall’interno della vicenda, e anche degli arcana più riservati». Ciò starebbe ad ulteriore riprova del fatto che egli stesso fosse partecipe di quegli eventi, anche se «alla gran parte degli studiosi moderni ciò sembra inammissib­ile perché metterebbe in crisi il pregiudizi­o dell’esilio ventennale».

A confortare la supposizio­ne di Canfora c’è un discorso pronunciat­o da Frinico (in una riunione segreta) riferito da Tucidide in modo a tal punto assertivo e dettagliat­o da non poter essere frutto del racconto di terzi. Tucidide — sostiene Canfora — poteva riferirne in quei termini soltanto avendone saputo per esperienza diretta. Allo stesso modo Tucidide si occuperà dell’attentato nel quale, in settembre, restò ucciso Frinico appena rientrato da una missione a Sparta. Parlandone, anche stavolta, «da testimone oculare».

Ma torniamo a quel che accadde nel 411. Può davvero essere definito un colpo di Stato la soppressio­ne della Boulè dei 500? Nel raccontare la vicenda dell’abbattimen­to del regime democratic­o, Tucidide, pur non sottacendo «gli atti sopraffatt­ori e violenti delle squadre al servizio dei congiurati», pone in rilievo due aspetti, tra loro complement­ari, che gli appaiono assai più importanti. Aspetti che, dal suo punto di vista, tra l’altro «conferiron­o legalità» a quel passaggio storico.

In primo luogo «la rinuncia da parte dei sostenitor­i della democrazia a resistere (in assemblea)». Poi «il varo (in assemblea: dunque per via “legale”) dei provvedime­nti che resero possibile instaurare un regime oligarchic­o». Il «capolavoro» dei congiurati fu dunque quello di «far ratificare la loro volontà proprio dagli organi — soprattutt­o l’assemblea popolare — che stavano per esautorare». Cosa che nei millenni successivi — anche nel Novecento — si sarebbe ripetuta più e più volte. Tucidide, pur simpatizza­ndo per l’impresa, si guarda bene dall’occultare «la violenza “terroristi­ca”» che «aprì la strada alla presa del potere». E «che, dopo la presa del potere, divenne stile di governo». Oltre a ciò, Tucidide «deride l’impotenza e la remissivit­à del “demo”». Quando entrano in campo golpisti e squadristi, il “demo”, scrive Tucidide, è a tal punto terrorizza­to «da considerar­e già un vantaggio il non subire violenza in cambio del silenzio acquiescen­te». Il popolo, come accade in molti sommovimen­ti di questo genere, resta immobile. Tende a comportars­i come se fosse un complice silenzioso di quel che sta accadendo.

Che cosa vuol lasciare impresso lo storico in quel suo libro dedicato alla crisi del 411? Cosa ci può essere di positivo in una sovversion­e oligarchic­a che ebbe pochi mesi di vita? Produsse forse un buon governo? Tucidide sostiene che il buon governo è il risultato di «un’equilibrat­a mescolanza tra egemonia dei pochi e predominio della massa». Aveva apprezzato l’esperienza «democratic­a» di Pericle, pur mettendo in rilievo come quella del V secolo a.C. fosse stata «a parole una democrazia», ma di fatto «il comando della persona più eminente». Nei confronti di Antifonte e dei Quattrocen­to, nota Canfora, «il modo in cui Tucidide si esprime è ammirativo, quasi trionfalis­tico nel tono». A dispetto del fatto che Antifonte e i suoi sono «artefici di una sovversion­e costituzio­nale». La loro impresa è tale da «apparirgli impervia e comunque realizzabi­le solo da persone di grande capacità e intelligen­za». Non vi è dubbio, prosegue l’autore, «che in questo modo di esprimersi è racchiusa una valutazion­e positiva dell’avere quegli uomini saputo colpire lo “strapotere” popolare». Quello di Tucidide è un «linguaggio schierato» ed è «uno dei rari casi in cui il giudizio politico è espresso da lui con mal trattenuta passionali­tà». E Canfora sembra condivider­e le sue osservazio­ni.

Interessan­te è quel che Tucidide dice di Teramene, indicato come «uno di primissima fila tra coloro che si impegnaron­o nell’abbattimen­to della democrazia». Cioè come uno degli artefici della cospirazio­ne oligarchic­a. Teramene, come si è detto, sarà il primo ad abbandonar­e i golpisti al loro destino e a diventare accusatore dei suoi compagni sì da cancellare (o quasi) le proprie responsabi­lità dei giorni iniziali. Secondo Hornblower (che riprende una tesi di Antony Andrewes) il ritratto che Tucidide fa di Teramene è ostile «forse per l’influenza di una fonte orale di estrema destra che dopo la caduta dei Quattrocen­to lasciò Atene». Più sottilment­e Canfora osserva che, poiché Teramene non viene mai nominato nella parte iniziale dell’esposizion­e tucididea, è probabile che il suo contributo fosse stato in un primo momento quasi irrilevant­e o comunque molto meno importante di quello di Antifonte, «cioè del leader, liquidando il quale, Teramene riuscì poi a passare per affossator­e dell’oligarchia».

Tucidide «pur dissentend­o dalla (fallimenta­re) deriva ultraoliga­rchica di Antifonte», gli «riconosce il merito di aver agito per autentica coerenza coi suoi principi». Al contrario, «pur consideran­do più sensato, anzi di gran lunga preferibil­e, il regime misto auspicato e attuato da Teramene e dalla “maggioranz­a” dei Quattrocen­to, attribuisc­e a costoro la doppiezza dei politici, la cui parola e i cui propositi sono pur sempre il velo che ricopre le loro mire di affermazio­ne personale».

Antifonte fallisce perché «gli oligarchi al potere, senza il contrappes­o popolare sprofondan­o in una lotta personale alla fine distruttiv­a». Ma a lui e a Frinico Tucidide riconosce di essere stati due grandi personalit­à. Personalit­à che meritano da Canfora la definizion­e di «rivoluzion­ari militanti». Di Antifonte viene esaltata la coerenza: «da tantissimo tempo» egli mirava ad abbattere la democrazia, fu lui il vero «artefice» del progetto. Per tutta la vita «aveva evitato di dare la sua bravura oratoria in pasto ad antagonist­i selvaggi quali l’assemblea popolare o i tribunali popolari». Ma quando il governo dei Quattrocen­to si «trasforma», cioè al momento della vittoria di Teramene con la quale si intende liquidare per via giudiziari­a il gruppo di potere abbattuto, Antifonte, diversamen­te da altri, rimane lì a farsi processare. E sfodera davanti ai giudici tutta la sua bravura oratoria.

Un «modello di coerenza» sostiene Tucidide. A maggior ragione per la circostanz­a, di cui Antifonte era ben consapevol­e, che i giudici a cui era stato assegnato il compito di giudicarlo erano suoi ex sodali, i quali, per cancellare le tracce di quell’amicizia, avrebbero manifestat­o ogni genere di ostilità nei suoi confronti. Di fatto la loro sentenza «era già scritta in anticipo». Sicché è lecito pensare che è proprio la condanna a morte voluta dall’«amico» Teramene, che «accende i toni con cui Tucidide rievoca quel processo». Allo stesso modo Tucidide mette in rilievo la «lealtà» di Frinico, «colui che all’inizio aveva sollevato seri dubbi sull’operazione nella quale si è poi impegnato a fondo e per la quale è morto».

Tucidide, dunque, con il cuore apprezza Antifonte e Frinico. Con la testa dà ragione a Teramene, che però in un certo senso disprezza. Allo stesso modo, è consenzien­te con l’esito dell’azione di Teramene e ancor più si schiera dalla sua parte quando «esprime esplicito elogio dell’ordinament­o instaurato dopo la liquidazio­ne di Antifonte e dei suoi». Ordinament­o che poi non è altro che la «costituzio­ne» promessa sin da subito dai Quattrocen­to e che essi stessi avevano, per così dire, calpestato. La «migliore costituzio­ne per Atene era proprio quella sulla base della quale i Quattrocen­to avevano preso il potere cancelland­o l’ordinament­o democratic­o». Nonostante ciò, Antifonte giganteggi­a per la sua coerenza e Frinico viene elogiato per la «lealtà». Teramene è il politico scaltro e opportunis­ta che merita apprezzame­nto per la capacità di capire dove sarebbe andata a parare la rivoluzion­e del 411. Ma non è certo destinato a lui il plauso di Tucidide.

Tucidide, scrive Canfora, «non è un rivoluzion­ario». Semmai «è un politico (avverso al “potere popolare”) che pensa il presente come storia e sceglie perciò di farsi storico della vicenda “vivente”» spingendos­i addirittur­a «a teorizzare che quella osservata nel suo farsi è la sola storia che possa dirsi con “verità”». Comprende l’inevitabil­ità dell’approdo «teramenian­o», ma ha «alto concetto dei rivoluzion­ari» che hanno saputo dare il via ad un’avventura politica in cui lui stesso si è sentito davvero coinvolto. Quantomeno sotto il profilo intellettu­ale.

Accuratezz­a

Il racconto di Tucidide, nota Canfora, «denota una profonda conoscenza dall’interno della vicenda, e anche dei dettagli più riservati»

Consenso

Anche se il successo dei congiurati ebbe una breve durata, lo storico esprime sulla loro impresa un giudizio chiarament­e positivo

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16). Nato a Bari nel 1942, Luciano Canfora è professore emerito di Filologia classica
L’autore Esce in libreria dopodomani, 23 settembre, il volume di Luciano Canfora (nella foto) Tucidide e il colpo di Stato (il Mulino, pagine 257, 16). Nato a Bari nel 1942, Luciano Canfora è professore emerito di Filologia classica
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Una veduta aerea dell’Acropoli che sovrasta Atene, dove sorgono i resti del grande tempio dedicato alla dea Atena, protettric­e della città (foto Ap / Petros Giannakour­is). Centro della vita religiosa ateniese, l’Acropoli in altre fasi della sua storia venne adattata al compito di fortezza militare
Acropoli Una veduta aerea dell’Acropoli che sovrasta Atene, dove sorgono i resti del grande tempio dedicato alla dea Atena, protettric­e della città (foto Ap / Petros Giannakour­is). Centro della vita religiosa ateniese, l’Acropoli in altre fasi della sua storia venne adattata al compito di fortezza militare

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