Variazioni Richter
«Mix di classica ed elettronica senza barriere L’avanguardia riscopra l’impegno politico»
Max Richter, lo sperimentatore anomalo. L’esempio perfetto del suo eclettico laboratorio dove confluiscono, in chiave «politica», sinfonismo d’avanguardia ora liquido ora fisico, danza e cinema, le radici classiche e l’elettronica. Si sono ritrovati nel concerto di ieri all’Auditorium per il Romaeuropa Festival, unica data italiana.
«Con la musica possiamo riflettere sulle grandi questioni aperte, il dovere di un artista è di rappresentare i tempi», dice. Tedesco di nascita, britannico di adozione, ogni sua musica si fa metafora di qualcosa. Dove c’è un conflitto, quella è la sua tazza di tè. Uno stile personale che coniuga post minimalismo e emotività, costruendo mondi inesplorati. Ha presentato due dei suoi più grandi successi: The Blue Notebooks (col suo ensemble) e Vivaldi’s The Four Season (con l’Orchestra Finnica), brano dal tocco «minimalista barocco» che gli valse il primo posto nella classifica classica in 22 Paesi.
Di Vivaldi lei una volta ha detto che lo ama e in un’altra occasione che lo odia.
«Quando ero bambino, mi innamorai delle Quattro Stagioni. Un pezzo straordinario. Anni dopo ho visto come veniva maltrattato e usato come intrattenimento: nelle pubblicità in tv, negli ascensori... Da qui l’amore e l’odio».
Ma perché riscrivere le Quattro Stagioni?
«Architettonicamente sembra un pezzo moderno, potrebbe averlo scritto John Adams. È concepito sulla reiterazione tematica. Sono partito dalle basi di Vivaldi per arrivare a conclusioni del tutto diverse. È stato un processo di esplorazione. Non ho voluto mettere i baffi alla Gioconda. Mi aspettavo critiche più severe da parte dei tradizionalisti. In molti hanno capito lo spirito con cui l’ho scritto».
The Blue Notebooks invece
è musica di protesta?
«Sì, in un certo senso mi richiamo al primo Bob Dylan. L’ho scritto sull’onda della guerra in Iraq, che segnò l’inizio di una nuova politica, qualcosa che aveva a che fare più con la Storia che con i fatti e cioè l’invasione. La musica, come sostenevano Woody Guthrie, Dylan o Beethoven, riguarda gli aspetti sociali della vita, che cosa accade nel nostro mondo».
E adesso scriverà musica sull’Afghanistan, sulle donne, sui diritti negati?
«L’ho appena scritto, anche se non riguarda solo Kabul. Si intitola Voices, mi riconnetto ai principi della Dichiarazione universale dei Diritti Umani: tutti gli esseri umani sono nati liberi e eguali in dignità e diritti. E’ una buona medicina, siamo in un mondo senza speranza. Il mondo è capovolto e così io ribalto le proporzioni dell’organico: sono quasi tutti bassi e violoncelli, in un insieme reinventato tra elettronica e quella che chiamo orchestra negativa».
È appena uscito il suo cd Exile, lei si è mai sentito un artista in esilio?
«Exile è un balletto ispirato al disastro umanitario in Siria, i profughi che scapparono dalla guerra civile. Personalmente, ho una formazione classica, ho ricordi ottimi di Luciano Berio, non credo a categorie e confini, non faccio parte dell’establishment quindi in un certo senso sì, sono in esilio».
Cosa significa oggi fare sperimentazione?
«Si esplora lo sconosciuto,ma non esiste più l’avanguardia degli anni 60 con le grandi aspettative di Stockhausen e Boulez. L’orizzonte è frammentato. La musica ha doveri morali ed è un modo di parlare l’uno con l’altro».
Lei è autore di colonne sonore, Scorsese, Gray...
«Uso l’elettronica, sperimento. Al cinema è divertente il puzzle creativo. In Shuttered Island si combinano canzoni pop con ricerche mie, di Ligeti, Eno, Cage... In Ad Astra penetro sia nella dimensione psicologica del protagonista, Brad Pitt, sia nel viaggio fisico che compie nello spazio. Poi sono al terzo capitolo di L’amica geniale, che ci riporta alla Napoli di 50 anni fa. Amo quel progetto».
Al cinema è divertente il puzzle creativo Per il film «Ad Astra» penetro nella psiche di Brad Pitt e nel viaggio fisico che compie nello spazio