Percussioni e violenza sulle note di un flamenco
Adifferenza che in La fiesta, quando tutto era luce, colori e splendore, Mellizo Doble di Israel Galván e Niño de Elche in scena all’Audtorium per Romaeuropa, vive nell’oscurità: dalle radici non sale la musica della vita, gli artisti gitani producono percussioni e violenza. Niño de Elche, il cantaor, era sulla sinistra, in piedi. Israel Galván, il bailaor, uscì da destra, dal buio. «L’Angelo dà luci e la musa dà forma» dice Lorca commentando il duende — poiché alla fine di questo si tratta.
Israel era vestito con una giacca di pelle grigio-blu, sotto aveva una lunga camicia chiusa fino al collo, i pantaloni strettissimi, anch’essi quasi neri. Cominciò a battere i piedi, come sappiamo (immaginiamo) che si battano nel flamenco. Incrociò le braccia. Afferrò i lembi dello spolverino che indossava sulla giacca. Niño lo accompagnava (lo accompagnava fino a che punto?) con la voce di questo «paso doble» fatale: una voce gutturalizzata, nasale, a stacchi improvvisi, a pause e silenzi incomprensibili.
Intanto Israel variava la velocità dei suoi movimenti. Avanzò le braccia, idealmente, fino a noi. Estrasse un fazzoletto rosso e leggero dalle mutande, lo sventolò, lo gettò con una punta di disprezzo da sé lontano. Non si sa come, riuscivamo a distinguere quelle sillabe che gli italiani conoscono: plaza de toros. Ma non era una corrida. Era un confronto e nello stesso tempo un accompagnamento, una cauta complicità. Israel, che da tempo amiamo, schiaffeggiava una mano con l’altra, si sedeva, scivolava all’indietro — su un piatto.
Poi allargò le braccia, tutto aprendosi, tutto accogliendo. E si chiuse di nuovo in sé, nella sua vanità: si pose di prospettiva e si pose poi di profilo. Subito dopo si tolse lo spolverino, fu come fosse rimasto nudo. Ora usava solo le braccia, i piedi erano ben piantati al suolo, alla terra: e le braccia le alzava, le nascondeva dietro la schiena, batteva le mani con lo stesso ritmo, con il suo compas.
Mise le braccia intorno alla propria gola, saliva su una panca, si poneva una mano sul fianco, roteava il braccio sinistro, roteava tutto — su sé stesso. E di nuovo s’ergeva, correva, distendeva parallele le braccia in avanti. Si poggiava su una stampella. Sapeva che Niño non lo avrebbe comunque abbandonato. Con la stampella rese rapidi i suoi passi, i suoi tacchi battevano a terra quasi con furia — e furia non era, non era che pura necessità. Prima le poche luci che rendevano visibile ciò che sto tentando di descrivere si fecero intermittenti, poi si spensero.
Rimase chiaro solo il viso (la voce) di Niño. Nel buio indovinammo che Israel s’era posto di spalle, e poi si chinava, si sdraiava pancia a terra — braccia in croce. Con la chitarra tra le mani, la voce di Niño era adesso calante. Israel, seduto su una sedia, indomabile, lanciava le gambe come se ancora ballasse. Eravamo, noi italiani (ma, io credo, tutti) in un orfico «suono». Eravamo ai limiti dell’umana conoscenza.
Mellizo Doble di Israel Galván e Niño de Elche 8 ●●●●●●●●●●