Moretti, giudice inflessibile stupito di fronte al degrado
Il Moretti diverso dal solito, corale, non centrale, che racconta una storia non sua ma di Eshkol Nevo, autore del bellissimo Tre piani in cui si confondono i destini di una palazzina di Tel Aviv, come un mini kibbutz, qui trasferita a Roma. Se nel libro erano tre voci quasi monologanti, Moretti mescola le tenzoni inconsce (in origine riferite a Freud, dal basso all’alto, l’Es, l’Io e il Super Io), mantenendo intatto il rigore morale verso gli altri, perché è la somma di tanti che fa la civiltà di un luogo.
Anche attore nel ruolo del giudice inflessibile col figlio che guidando ubriaco uccide una donna, Moretti racconta con un certo distacco l’esodo dei genitori dai figli, l’ossessione del padre che sospetta la figlia molestata dal vecchio coinquilino demente e i fantasmi della giovane madre in galoppo verso una tranquilla follia. Il suo film non ha la venatura melò che poteva sopportare, parla di una responsabilità che non è mai individuale e dello stupore di fronte al degrado, finendo con un ballo in strada conciliatorio come quando si cantava dai balconi a inizio pandemia.
Tre piani guarda negli occhi lo sgomento fuori campo dell’autore verso una realtà riassunta nel micro-macrosomo del condominio. Scegliendo un’alternativa al suo cinema più riconoscibile, l’autore cerca di far dialogare i personaggi di Nevo, più di quanto abbia tentato di far dialogare i suoi. E tutto il cast lo asseconda mentre Margherita Buy e Alba Rohrwacher tentano di prenotare dalle macerie un sorriso.
7,5 ●●●●●●●●●●