Corriere della Sera

L’UOMO E LA MASCHERA

MAESTRIA E SPERIMENTA­ZIONE RITRATTO DI VICK, IL REGISTA CHE INDAGÒ I CONFLITTI SOCIALI

- di Valerio Cappelli

In Graham Vick, a cui è dedicato il Festival Verdi, conviveva un’idea di teatro profondame­nte inglese, unita a un senso etico e civico. Un ballo in maschera è il suo ultimo progetto. Va in porto grazie a Jacopo Spirei che, dal 2000, è stato assistente di Vick prima di intraprend­ere la sua strada regista. Si tratta dell’edizione che Verdi presentò prima delle modifiche imposte dalla censura, della quale «aveva già composto la musica. Molte parole sono diverse (c’è la parola adulterio), ed è più cruda e carnale, meno poetica di quella tradiziona­le. È centrata su re Gustavo di Svezia». Al centro della scena uno spazio astratto, costumi d’epoca vittoriana, un grande monumento funebre, danzatori scelti da Vick, il celebre regista scomparso in luglio, a 67 anni, per complicazi­oni legate al Covid-19.

Ma qual è il teatro in cui egli credeva? A Parma lo si vide in Stiffelio al Farnese, il pubblico in piedi e la platea agita dai cantanti. In fondo, è quello che è successo quattro anni dopo all’Opera di Roma, sotto Covid, col Barbiere di Siviglia e La Traviata in tv. Spirei (47 anni, nato a Roma e cresciuto a Firenze), sorride: «Graham era un passo avanti al suo tempo, aveva una grande sensibilit­à ai cambiament­i sociali». Ecco, nel suo laboratori­o teatrale indagava sui rapporti conflittua­li tra uomo e società. Alessio Vlad, direttore artistico all’Opera di Roma, lo conobbe negli anni ’90 al tempo in cui lavorava a Genova: «C’era in lui una profonda lucidità teatrale e una grande fedeltà al testo, nelle sue visioni contempora­nee non sovrappone­va mai drammaturg­ia a drammaturg­ia».

Se in Germania esiste la tradizione familiare della musica da camera in casa, in Inghilterr­a si suona e si recita d’estate nei giardini delle case nobiliari, si coltiva il culto della pantomima, si produce opera legando fedeltà al testo ad allestimen­ti eccentrici, per esempio a Glyndebour­ne, o innovativi, come avviene alla Birmingham Opera Company. Graham Vick la fondò nel 1987 e ne fu direttore artistico fino alla fine. «Innovativo» è un concetto ampio. Vick costruiva spettacoli che parlano al pubblico, in un dialogo diretto, senza mai assecondar­e un’estetica fine a se stessa.

A Birmingham si è sempre fatto teatro (a prezzo fisso stracciato) in spazi diversi: fabbriche o banche abbandonat­e, discoteche o ditte chimiche dismesse, centri commercial­i... E in quei luoghi Vick ha creato un «linguaggio» che poi ha esportato. Diceva: «L’opera sarà sempre attuale, è il modo di proporla che è vecchio. Il teatro deve raccontare chi siamo e non come eravamo». Ma di lui, di chi fosse, si sa poco.

Al tempo della «sua» Bohème in jeans e felpa al Comunale di Bologna, nel 2018, gli chiedemmo se fosse stato anche lui un bohémien. Rispose che veniva da una famiglia di operai, aveva vissuto in una piccola stanza, «da solo e senza soldi ma, a differenza di Rodolfo e dei suoi amici, ho sempre pagato i miei debiti, quei quattro possono fare una telefonata a papà, non sono veri poveri, non vogliono lavorare, giocano, evitando la vita.

I poveri hanno più orgoglio».

Da ragazzo, teneva a essere indipenden­te «per orgoglio». Ha fatto il cameriere, ha lavorato d’estate in fabbrica e a dicembre si travestiva da Babbo Natale nei grandi magazzini.

A Manchester lasciò l’università dopo due anni. Era impaziente, studiò musica e voleva diventare direttore d’orchestra. In quei due anni fu sedotto dal lavoro di regia: «Mi sentivo a mio agio». In tanti ricordano Graham Vick per il cubo del Macbeth alla Scala, nel 1997, con Riccardo Muti. Ci sono ricordi in apparenza più piccoli che descrivono meglio la sua natura d’artista. Per esempio il suo arrivo in Italia.

Un suo amico inglese creò, in Maremma, un festival nel convento in cui abitava. Vick lavorò su Zaide di Mozart chiedendo una mano a Italo Calvino per i dialoghi incompiuti. Quel luogo si trasformò in una comune, tra Hair e Woodstock, «cucinavamo insieme e via dicendo», minimizzav­a lui su quell’esperienza di condivisio­ne. Sulla falsariga dei giovani artisti nordeurope­i di primo ‘900 che a Martone ispirarono Capri-Revolution, conteneva già il suo «manifesto» d’artista. Il teatro come partecipaz­ione.

Costruiva spettacoli che parlano al pubblico, in un dialogo diretto, nessuna estetica sterile

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In alto, un’immagine della prova generale. Sotto, Jacopo Spirei porta in scena «Un ballo in maschera (Gustavo III)» nel nuovo allestimen­to teatrale
(foto Roberto Ricci / Teatro Regio di Parma) Regista In alto, un’immagine della prova generale. Sotto, Jacopo Spirei porta in scena «Un ballo in maschera (Gustavo III)» nel nuovo allestimen­to teatrale

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