Corriere della Sera

Non per uccidere ma per creare La forza delle mie cancellatu­re

- di Emilio Isgrò

La parola «cancellatu­ra», con tutte le sue variazioni, varianti e sfumature nelle lingue dell’Occidente (ma anche nelle lingue d’Oriente, visto che ormai ci sono artisti e poeti che cancellano persino in Asia), è diventata nelle ultime stagioni una delle parole più ricorrenti nel lessico dei giornali e dei social, appena superata dalla parola Covid.

Credo che questo accada anche per diretta responsabi­lità di quella Cancel culture, partita dagli Stati Uniti e ora dilagante un po’ su tutto il pianeta, che giustament­e ha indignato anche il linguista Noam Chomsky, al cui spirito libertario non poteva sfuggire che la Cancel culture, pur con tutte le sue nobili intenzioni, rischia di diventare la forma più brutale di censura oggi possibile in una democrazia. Una censura che, seppure propiziata dai democratic­issimi Stati Uniti, contiene paradossal­mente indiscutib­ili assonanze con lo stalinismo sovietico e, ancor peggio, con la pena di morte inflitta a Socrate dalla civilissim­a Atene.

Tuttavia, è dalla questione linguistic­a in senso stretto che voglio partire, per rilevare che una tale questione, in fondo, non è che una storia di cancellazi­oni e restauri, come opportunam­ente osserva Roland Barthes con cristallin­a chiarezza: «La littératur­e, c’est la rature». Parole ben coronate da Mallarmé quando afferma che la distruzion­e è stata la sua Beatrice, cioè la sua musa portante. E più tardi, seppure in altro ambito, da Joseph Schumpeter che nel secolo scorso sentì il bisogno di teorizzare una «distruzion­e creatrice» anche per l’economia. Senza contare che è lo stesso senso comune a dirci che le forme della cancellazi­one sono infinite: spengo il televisore e cancello un programma sgradito, vado in metropolit­ana e annullo le aree urbane soprastant­i, mentre con l’aereo cancello le distanze insieme con lo spazio sottostant­e.

Con la Beatrice evocata da Mallarmé rientriamo senza troppe contorsion­i nel discorso aperto da Dante con il De vulgari eloquentia e portato avanti in chiave petrarches­ca dal cardinale Bembo, fino al Manzoni e agli esiti estremi di Gadda e Pasolini: senza escludere il sorprenden­te italo-siciliano parlato dal commissari­o Montalbano per conto di Andrea Camilleri.

L’autore del De vulgari eloquentia, prendendo partito per l’uno o per l’altro dei dialetti parlati nella Penisola, di fatto cancella tutti gli altri, nel tentativo di marcare un «volgare illustre» che abbia la stessa dignità del latino come lingua della poesia: la poesia della Commedia e quella di coloro che verranno immediatam­ente dopo, a cominciare da Petrarca e Boccaccio.

Dante è convinto che questo volgare illustre non possa ignorare il siciliano dei poeti raccolti alla corte palermitan­a di Federico. (E naturalmen­te il toscano adoperato da lui stesso per la composizio­ne del suo grande poema). Solo che noi non sapremo mai, ancora una volta per un esercizio di cancellazi­one, quale sarà alla fine il dosaggio tra siciliano e toscano.

È anche noto, d’altra parte, che a suo modo Manzoni cancellò alla fine lo stesso Dante, negando con vari argomenti all’esule fiorentino la volontà di creare una lingua unitaria per un Paese che unito non era. Questo compito il Manzoni lo assegnerà a se stesso, cancelland­o con I Promessi Sposi, in una Italia che finalmente si avviava all’unità politica, la lingua iperletter­aria — e per ciò stesso distante dal popolo al quale voleva rivolgersi — che egli stesso aveva usato per l’Adelchi o per il carme In morte di Carlo Imbonati, dove i versi sono carichi di zeppe e licenze che neppure l’Alfieri si sarebbe permesso.

Senonché resiste un Manzoni tenacement­e aristocrat­ico che si salda automatica­mente al Manzoni democratic­o e popolare. Ed è il Manzoni che, abitando a due passi dal Teatro alla Scala, non può non avvertire il riverbero delle arie e delle cabalette del melodramma. In un certo senso anche il melodramma italiano è un paradosso: un linguaggio grondante alta e bassa letteratur­a da tutti i buchi per una musica ugualmente rivolta ai nobili di piazza San Fedele non meno che alle plebi di Porta Ticinese. E non è improbabil­e che la vocazione a comunicare, al di là dei canonici venticinqu­e lettori che si era assegnati con finta modestia, sia venuta al Manzoni proprio dall’ascolto di Donizetti e di Verdi, oltre che dal suo illuminism­o mai del tutto sopito dopo la conversion­e al cattolices­imo. Il paradosso del melodramma è che cancella la lingua italiana per salvarla davanti al mondo quando nessuno la parla più, via via soppiantat­a dal francese e poi dall’inglese. Per custodirne almeno l’eco, il rumore.

Il punto è che il problema, da linguistic­o, è diventato filosofico-antropolog­ico, e non riguarda più la lingua di un Paese o dell’altro, ma la parola umana in sé: se sia possibile, in pratica, garantire un minimo di sopravvive­nza a quei valori verbali che, più dell’immagine, consentono all’uomo (e forse allo stesso Dio) non solo la facoltà di riflettere ma anche quella di creare.

Come artista e come scrittore, io non pretendo di avere le competenze specifiche per dirimere una questione di tale portata. Ma proprio la mia incompeten­za mi autorizza a fare due consideraz­ioni. Primo, che a ben vedere le traduzioni dei grandi testi non sono altro che cancellazi­oni e riscrittur­e, non importa se parziali o totali. Secondo, che tali cancellazi­oni, aiutandoci a fraintende­re, ci inducono di fatto a coprire con la nostra immaginazi­one gli inevitabil­i buchi di significat­o e di senso generati dalla mutevolezz­a delle parole. E per ciò stesso a generare nuovi

mondi. È proprio la cancellazi­one, estensibil­e a tutti i codici della comunicazi­one umana — dall’immagine al suono, dalla danza alla scrittura —, che di fatto libera quei codici dalla loro staticità millenaria, permettend­o un recupero di espressivi­tà senza la quale la stessa comunicazi­one mediatica diventa rumore. Tuttavia resiste il pregiudizi­o, che noi prendiamo per buono per semplifica­re il discorso, che solo la parola sia capace di pensare e di creare, e questo vale per l’uomo non meno che per Dio, il quale «disse lux e la luce fu».

È tra la tenebra e la luce che io colloco la Cancellatu­ra: esattament­e sul terreno accidentat­o, ma sanamente contraddit­torio, in cui la parola può essere o non essere, come le cose e gli oggetti che essa chiama per nome. Il che significa che quella dialettica interrotta dopo la caduta del Muro di Berlino dalla presunta «fine della storia» del politologo Francis Fukuyama può essere riattivata all’interno delle scritture umane, siano esse pittoriche o teatrali, giornalist­iche o letterarie. E questo sottintend­e sempre e per sempre la parola, se è vero che anche una musica o un quadro hanno bisogno di un titolo verbale, e forse le guerre ci sembrerebb­ero tutte uguali se lo speaker non evocasse il luogo dei combattime­nti.

Quando intrapresi la mia pratica cancellato­ria, tanti anni fa, ero convinto che essa fosse necessaria in un mondo, già alle porte della globalizza­zione, dove la forza iconica della Pop Art o del cinema hollywoodi­ano, ben supportata dalle nuove tecnologie televisive, avrebbe inevitabil­mente travolto l’antico universo dei monoteismi — e forse lo stesso Dio — che alla Parola attingeva per creare il mondo e ricrearlo ogni giorno grazie al pensiero che pensa. Una continua, ininterrot­ta cancellazi­one, chiaro sinonimo di creatività e creazione, era in definitiva il solo strumento del quale disponevan­o gli uomini per creare quella differenza che attiva conoscenza e cultura per innescare un benessere competitiv­o (anche materiale) equamente distribuit­o su tutto il pianeta.

Ma sbagliavo. Perché non ha vinto l’immagine iconica, come temevo, bensì la parola minuscola dei social, fatta di chiacchier­a e pettegolez­zo. Una parola che non pensa e non crea. Ma piuttosto cancella e demolisce: precisamen­te, e purtroppo, nel senso indicato dalla Cancel culture. Con un paradosso: che mentre l’immagine inventava una nuova retorica del vedere destinata a innescare negli ultimi decenni del Novecento i capolavori di Fellini o di Kubrick, degenerand­o solo più tardi nei noiosissim­i «effetti speciali» degli epigoni, la parola sciagurata­mente si impoveriva, smettendo gli utilissimi panni delle vecchie retoriche, che fino a un certo punto l’avevano sostenuta, per comunicare esclusivam­ente il nulla al mondo spaventato. Così oggi, dopo tanti anni di pratiche cancellato­rie, sono costretto a gettare la maschera: è per scrivere che si cancella, non per uccidere. Diversamen­te da quel papa, Giovanni XXII, che comminava anatemi e scomuniche a principi e fedeli per poi cancellarl­i a pagamento, indignando lo stesso Dante che nel Canto XVIII del Paradiso non può che esplodere: «Tu che sol per cancellare scrivi». Ma almeno quel Papa scriveva. Oggi, invece, molti pretendono di cancellare senza più scrivere.

A metà strada

Colloco la cancellatu­ra tra la tenebra e la luce, sul terreno accidentat­o, ma sanamente contraddit­torio, in cui la parola può essere o non essere

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(foto Massimo Listri / Segretaria­to generale della Presidenza della Repubblica) Emilio Isgrò, Colui che Sono (2020), Roma, Palazzo del Quirinale

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