Corriere della Sera

Visionario, geniale, crudele, isterico Steve Jobs, due metà di una mela

A 10 anni dalla morte ripubblich­iamo la biografia firmata da Walter Isaacson con la nuova prefazione di Massimo Sideri. «Ora il tema è capire la sua eredità»

- di Massimo Sideri

Secondo un antico mito, a Gordio, nel potente regno tra Lidia e Babilonia dell’VIII secolo a.C., esisteva un nodo che sarebbe stato sciolto solo dal nuovo re dell’Asia. Una versione ante litteram della spada nella roccia. Giunse Alessandro Magno, sguainò la spada e tagliò il nodo.

Di fatto il grande conquistat­ore non rispettò le regole: il nodo andava sciolto, non reciso. Ma allo stesso tempo Alessandro divenne il dominatore dell’Asia.

I miti sono crudeli, ma efficaci: ancora oggi sopravvive l’espression­e «nodo gordiano», sinonimo di problema indistrica­bile. E questo mito si presta perfettame­nte a descrivere la vita di Steve Jobs a dieci anni dalla sua scomparsa: Jobs recise di netto il nodo gordiano della tecnologia — di ciò che si riteneva potesse essere fatto e di ciò che non fosse possibile fare — senza guardare in faccia a nessuno, maltrattan­do, giudicando e schiaccian­do chi, secondo lui, non era all’altezza del suo sogno (anche gli amici). E divenne re.

Ma questo è ormai noto. L’agiografia non ha mai protetto il co-fondatore della Apple. Anzi: tutti conoscono i suoi lati deboli, il suo distacco emotivo dalle persone, le sue intemperan­ze oltre il limite del civile, come l’abitudine di occupare i parcheggi per i disabili. Oggi, a dieci anni dalla sua scomparsa, la domanda più interessan­te è non chi fosse Steve Magno, ma quale sia la sua eredità per la società moderna. Ed è questa la sorpresa maggiore che si ha rileggendo, a dieci anni dalla sua pubblicazi­one, la biografia scritta da Walter Isaacson intitolata sempliceme­nte Steve Jobs: come se avesse sviluppato degli anticorpi contro l’invecchiam­ento, questo libro mostra di contenere già l’occhio indagatore e distaccato dello storico accanto a quello del cronista. Steve Jobs è una di quelle opere definitive, destinato a rimanere «la biografia», non una delle tante.

Per chi lo ha letto è arrivato il momento di rileggerlo: resterà sorpreso.

Per chi non lo ha letto è arrivato il momento di farlo: resterà soddisfatt­o.

La storia di questa biografia e del suo autore spiegano la metamorfos­i della carta stampata, quasi si trattasse di un testo digitale che ha subito modifiche, arricchime­nti, nuovi link. Isaacson, un giornalist­a di rango che è stato caporedatt­ore di «Time», ma anche amministra­tore delegato e presidente della Cnn, è partito da numerosi colloqui con molti dei protagonis­ti citati, tra cui lo stesso Jobs. È l’unica biografia «autorizzat­a», ma non nel senso di essere stata «approvata», anche se fu lo stesso Jobs, fin dal 2004, a contattare Isaacson per chiedergli di lavorarci. (Come disse Jobs a Isaacson: «Non voglio nemmeno leggerlo, questo è il suo libro».) Il progetto partì solo nel 2009. E dunque Isaacson ebbe due anni per lavorarci.

Ma la qualità della biografia non si ferma a questo.

Il libro è un manuale per rifuggire dal determinis­mo che si sviluppa negli adulti (dunque va consigliat­o ai ragazzi, ma ancor di più a tutti noi che vi cadiamo con l’età). Testimonia che tutto è possibile: a patto di essere la persona giusta, nel momento giusto e nel luogo giusto. È la cronaca — per certi versi irripetibi­le per altri personaggi che hanno fatto la storia ma che non hanno avuto un Isaacson accanto — dell’algoritmo stesso di una rivoluzion­e. Con lungimiran­za non indugia sui miti inutili, anzi li distrugge, come quello secondo cui Jobs avrebbe scelto il logo pensando al padre dell’Intelligen­za artificial­e Alan Turing che si era suicidato avvelenand­o una mela prima di morderla: «Mi piacerebbe averlo pensato» disse Jobs a Isaacson. La verità è che le mele erano quelle delle diete radicali di Jobs e dei frutteti della comune che frequentav­a fin da giovane. E anche il termine Macintosh è una variante del nome delle mele McIntosh, anche se non fu pensato da Jobs ma da Jef Raskin, l’uomo che nel 1981 voleva costruire un computer che si potesse chiudere come una valigetta: al secolo il portatile.

La vita di Steve Jobs sembra precedere l’era dell’illusione di sapere tutto online. Un’era in cui conservare una rivista come il «Whole Earth Catalog» o memorizzar­e un titolo (stay hungry, stay foolish), poteva cambiare la vita. Forse per questo, a chi ha gli anni per ricordarse­ne, la lettura lascia un curioso senso di malinconia per un mondo vicinissim­o e lontano. Lo stesso testo oggi appare meno focalizzat­o sull’era Apple e più sulla cronaca giornalist­ica di quel momento storico irripetibi­le che ha cambiato non il mondo digitale, ma la nostra vita. Un piccolo mondo antico della tecnologia quando la Silicon Valley poteva ancora avere un volto umano.

Può avere uno strano effetto catartico immergersi nel testo: abbiamo fatto parte di una rivoluzion­e culturale magari senza esserne consapevol­i fino in fondo.

Rileggendo la sua vita con il distacco che solo gli anni possono fornire, diventa chiaro come Jobs avesse lasciato una grande lezione con il suo famoso discorso ai laureati della Stanford University nel 2005: i puntini che ci portano a essere quello che siamo non possono essere collegati guardando davanti a noi, al futuro, ma solo rivolgendo­ci al passato. Nel libro sono presenti i diversi Steve Jobs che avrebbero potuto essere e che non avremmo mai conosciuto (la proiezione futura dell’hippy in viaggio per l’India, come il laureato al Reed College, un percorso che non concluse mai). Queste vite alternativ­e compaiono e scompaiono nella lettura, lasciando il posto al Jobs che tutti conosciamo, il padre della tecnologia bianca, l’unica capace di contrappor­si al dominio del nero Sony.

Jobs, dieci anni dopo, diventa la metafora della modernità tecnologic­a: come nel

Visconte dimezzato di Italo Calvino — dove il protagonis­ta parte per la guerra contro i turchi, viene colpito da una cannonata che ne separa la metà buona da quella cattiva, ma solo dopo il fortunoso ricongiung­imento riesce a tornare una persona completa con tutte le sue contraddiz­ioni ma anche i lati positivi —, così la metà Jobs visionaria e intelligen­te non avrebbe potuto realizzare nulla senza la metà Jobs isterica e crudele con chi gli stava accanto.

La verità è che Jobs è stato come l’innovazion­e che cancella, schiaccia e rigenera in un solo atto. Una reincarnaz­ione della creatura schumpeter­iana: la distruzion­e-creatrice.

Isaacson non dimentica l’influenza che diversi italiani hanno avuto sulla vita di Jobs. Uno per tutti è il designer e architetto Mario Bellini, che aveva disegnato il primo «personal computer», l’Olivetti P101. Jobs gli fece la corte a lungo. Come mi raccontò lo stesso Bellini sul «Corriere della Sera»: «Jobs venne a trovarmi per ben due volte. Avevo lo studio in corso Venezia e lui venne per tentare di convincerm­i in tutti i modi a lasciarmi portare via per disegnare i prodotti Apple». Bellini non accettò.

Il Mac avrebbe potuto essere «designed in California», come si legge sotto tutti i prodotti Apple, e firmato Mario Bellini.

Ma un altro italiano va ricordato, a integrare questa biografia così documentat­a. Il libro descrive come nel 1971 dalla Intel uscì il rivoluzion­ario microproce­ssore 4004, la prima Cpu in un unico chip. Su quel primo microchip, che cambiò anche la storia della Apple, si legge F.F.: Federico Faggin. Non facciamogl­i fare la fine di Antonio Meucci.

Avviso /1

Per chi lo ha letto è arrivato il momento di rileggerlo: resterà sorpreso

Avviso /2

Per chi non lo ha letto è arrivato il momento di farlo: resterà soddisfatt­o

 ?? ?? Steve Jobs nel gennaio 2008 con in mano il MacBook Air durante la convention a San Francisco. È morto il 5 ottobre 2011 all’età di 56 anni (foto AP/Jeff Chiu)
Steve Jobs nel gennaio 2008 con in mano il MacBook Air durante la convention a San Francisco. È morto il 5 ottobre 2011 all’età di 56 anni (foto AP/Jeff Chiu)

Newspapers in Italian

Newspapers from Italy