ITALIANI EDUARDO SCARPETTA
Che cosa?
«“Mandatela in un’altra farmacia”. Insomma, niente farmaci da acquistare, ma l’ennesimo scherzo del padrone a quella poveraccia che aveva girato inutilmente».
Facciamo un po’ d’ordine nella sua genealogia: lei è figlio di Mario Scarpetta, che è figlio di Eduardo Scarpetta, che è figlio di Vincenzo Scarpetta, a sua volta figlio di Eduardo Scarpetta senior.
«Esatto e adesso impersono il mio bisnonno Vincenzo nel film Qui rido io, a fianco di Toni Servillo nel ruolo del mio trisavolo, con la regia di Mario Martone».
Come si è sentito nei panni di un personaggio non solo realmente esistito, ma oltretutto parente stretto?
«Non è stato facilissimo, per fortuna sapevo molte cose dalla mia famiglia, inoltre ho letto vari libri e poi mi sono affidato alla visione del regista. Vincenzo era un bravissimo attore, un ottimo cantante e come autore la sua opera più famosa è ’O tuono ’e marzo. Però, essendo figlio di cotanto padre, non ha avuto lo stesso successo».
In altri termini il suo talento è stato schiacciato dalla ingombrante figura paterna...
«Il figlio di Maradona non ha fatto la carriera del padre... e lui era erede di don Eduardo: famosissimo, ricchissimo, personaggio straordinario che ha dato vita a una rivoluzione teatrale. Ovvero, dall’improvvisazione della commedia dell’arte, Scarpetta passa alla creazione di testi, copioni scritti che i suoi attori dovevano interpretare e ai quali si dovevano attenere. Un nuovo orizzonte, dove era l’attore che andava verso il personaggio e non viceversa, com’era avvenuto fino a quell’epoca».
Inoltre, il suo bisnonno aveva per fratellastri Eduardo, Titina e Peppino De Filippo, figli naturali di Scarpetta, grandi attori, autori...
«Eh già... in pratica era assediato, per lui era come giocare in un campionato dove devi sgomitare per essere illuminato dai riflettori. Nel film, ho cercato di esaltare il suo côté elegante. Vincenzo era un po’ un gagà, un po’ dandy e, oppresso dal padre per il personaggio di Felice Sciosciammocca, che avrebbe dovuto sempre recitare ma lui non amava, voleva fare altro e tentava di ribellarsi».
Sotto il profilo umano e morale, come giudica il suo trisavolo, sposato con Rosa ma pieno di amanti, di figli illegittimi?
«Diciamo... piuttosto attivo in ambito privato, moralmente rocambolesco. Ha fatto sempre quello che voleva e, forse, se non si fosse comportato così non sarebbe stato il genio artistico che si è dimostrato. Però, certo, non si può affermare che sia stato molto corretto e proprio nella commedia Filumena Marturano, da parte di Eduardo De Filippo è molto evidente il riferimento alla questione dei figli naturali, quando fa dire dalla protagonista a Domenico Soriano: questi sono figli tuoi, li devi riconoscere, dar loro il tuo cognome e basta».
Peppino, nella sua biografia «Una famiglia difficile», racconta addirittura di aver subito delle presunte molestie dal padre. Tale rivelazione fece molto arrabbiare il fratello Eduardo che era estremamente discreto e che, quando gli veniva chiesto un parere sul padre, si limitava a rispondere: è un grande attore.
«Ho letto ovviamente il libro, ma non so quanto la vicenda sia realmente avvenuta e, se lo fosse, sarebbe davvero troppo. In famiglia non se n’è mai parlato e, se fosse ancora vivo mio padre, che ho perso quando avevo undici anni e che ha iniziato la sua carriera artistica proprio con il fratellastro Eduardo, glielo chiederei ora che sono adulto».
All’ombra di una discendenza così importante, entrare nel mondo dello spettacolo è stato per lei un azzardo o aveva il destino segnato?
«In casa tutti mi dicevano fai qualcos’altro, non fare questo mestiere. Ma nonostante mio nonno Eduardo facesse il farmacista, quindi aveva scelto davvero un altro mestiere per interrompere la catena, papà e mamma erano attori. Da quando sono nato, mi hanno sempre portato con loro in tournée, forse perché... (scherza) non volevano pagare una baby sitter... Tant’è, ma io ero felice di assistere ai loro spettacoli da dietro le quinte, ridevo come un matto, saltavo dalla gioia, quindi capii subito che quella era la mia strada. Il mio debutto avviene a nove anni accanto a loro nella commedia Feliciello e Feliciella, ovviamente di Eduardo Scarpetta. Al termine delle repliche, papà mi pagò con una banconota da 100 euro: è stampata nella mia memoria, bella, grande, di colore verde... ero illuminato dalla sua luce».
Ma se non avesse intrapreso questa strada, quale altra avrebbe potuto percorrere?
«In verità, mio padre voleva fare di me un calciatore. Tra gli otto e i dieci anni mi allenavo e lui mi accompagnava sempre al campo di calcio, mi dava consigli, indicazioni, istruzioni, si metteva in porta e parava i miei tiri. A quindici anni, quando lui purtroppo non c’era più, mi iscrivo a una scuola di calcio, ma proprio lì accade che, facendo una mossa sbagliata, sento un crac alla schiena: mi è venuta una scoliosi e, per curare il problema, ho iniziato a fare nuoto. Basta, archiviato il sogno del calciatore».
Basta tiri al pallone ed entra in una scuola di recitazione.
«La prima idea, dopo aver frequentato il liceo classico Umberto I a Napoli, con scarso rendimento scolastico, era quella di iscrivermi all’Accademia Silvio D’Amico. Per mia incuria, feci scadere il bando per presentare la domanda di ammissione e mia madre, che mi ha fatto anche da padre, mi iscrisse al Centro sperimentale».
Con scarso rendimento anche là?
«No, assolutamente. Ero attento alle lezioni, disciplinato, interessato a imparare il metodo, perché a questo serve una scuola, ed ero, di solito, sempre preparato nelle materie da studiare...».
Di solito? Non sempre?
«Bè una volta è accaduto un fatto sgradevole. Effettivamente non mi ero molto applicato e, quando la professoressa di turno si accorge della mia impreparazione, mi fa un cazziatone, aggiungendo una frase poco simpatica: “Anche se porti questo cognome importante, non puoi pensare di non lavorare come tutti gli altri compagni”. Ma la mia impreparazione non era dettata da arroganza dovuta alla mia ascendenza... e trovai quel rimprovero ingiusto».
Insomma, un cognome importante non è la scorciatoia per arrivare al successo?
«Semmai è una grossa responsabilità, imposta dalla mia carta d’identità. Devi dimostrare molto di più, proprio perché hai un’etichetta addosso. Devi essere all’altezza del compito con umiltà, lavorare onestamente e onorare i tuoi predecessori. La vera fortuna è di essere impegnato in un mestiere che mi piace, anche se la vita degli attori è piuttosto randagia: sei sempre in giro, tra set e tournée teatrali. E non solo gli attori, anche le maestranze che ci assistono fanno la stessa vita. Mentre giravo il film di Martone Capri revolution, ho assistito per caso al dialogo, su facetime, di un nostro tecnico con il figlioletto appena nato: il neo-padre non poteva andare ad abbracciare il suo bimbo! Mi ha fatto una certa impressione».
In altri termini, una vita da cani?
Ride: «No, anche se io ho un bellissimo labrador, di nome Megan, con cui faccio lunghe passeggiate quando ho tempo. Direi una vita instabile, la nostra: oggi sei qui, domani là e i rapporti personali con eventuali fidanzate o compagne sono piuttosto estemporanei, come capita. Basti dire che ho comprato una casa a Napoli, la mia città, e ancora non sono riuscito ad abitarla. Per fortuna, ci pagano bene e questo bilancia il sacrificio».
La famiglia
In «Qui rido io» impersono mio bisnonno Vincenzo. Era un bravissimo attore, però essendo figlio di cotanto padre non ha avuto lo stesso successo
Il cognome
Al Centro sperimentale un giorno non ero preparato e la prof mi rimproverò: anche se porti quel cognome non puoi pensare di non lavorare come gli altri