Corriere della Sera

FACEBOOK SI SCUSA E SI ACCORGE DEI GIORNALIST­I

- di Massimo Sideri © RIPRODUZIO­NE RISERVATA

Nel 1999 Insider, un film con Russell Crowe e Al Pacino, raccontò la storia del primo whistleblo­wer del tabacco, Jeffrey Wigand, un biochimico che, licenziato dall’industria delle Big del settore, denunciò al programma allora imperdibil­e della tv Usa, «60 minutes», come le aziende sapessero che le sigarette erano cancerogen­e e addirittur­a alimentass­ero la dipendenza da nicotina. Oggi sembra essere arrivato il momento «dei» social, anzi «del» social network: «Facebook crea dipendenza come il fumo e Zuckerberg lo sa» ha denunciato la talpa ed ex dipendente della società Frances Haugen. «Whistle while you work», ha titolato The Economist: fischia mentre lavori, giocando sulla parola whistleblo­wer, fischiator­e, che da noi potrebbe essere tradotta in gola profonda, riprendend­o la leggendari­a figura che incastrò Nixon nel caso del Watergate. Verrebbe da dire: Menlo Park abbiamo un problema. Anzi: Pianeta Terra abbiamo un problema. Si chiama democrazia, «la peggiore forma di governo che abbiamo, fatta eccezione per tutte le altre che abbiamo sperimenta­to» (copyright di Churchill). Ogni volta che inciampa Facebook mostra di avere compreso il problema, anche se con interventi marginali. Non può non colpire che proprio ora — pochi giorni dopo le rivelazion­i di Haugen — la società abbia annunciato di volere difendere dalle campagne di odio e dalle aggression­i in maniera più concreta «gli attivisti e i giornalist­i», perché si trovano ad avere un ruolo pubblico delicato. Dalle campagne di odio, non dal diritto di critica, che sono due cose diverse: è ormai chiaro che i veri attacchi partono da organizzaz­ioni strutturat­e che accendono le micce e non da chi ha tempo da perdere creando qualche troll, i profili falsi usati per il massacro. Sembra una mossa per dimostrare che Facebook non vorrebbe alimentare il modello di business dell’odio: quella miccia anche se è creata ad arte poi attira, funziona, alimenta la condivisio­ne, scatena gli istinti irrazional­i, quelli del fight or flight, combatti o scappa, dell’amigdala, la parte più antica del cervello. È il lato oscuro della nostra frustrazio­ne, quello che crea anche l’effetto branco. E che la apparente virtualità dei social network spinge ad essere parte di un gioco al massacro anche chi nella vita reale avrebbe mille freni inibitori. Un clic online è come un granello di sabbia. Ma miliardi di granelli di sabbia schiaccian­o le persone. E Facebook ci guadagna. Per la società è come il risveglio da un sogno ingenuo in cui la libertà è permettere a tutti di fare ciò che vogliono, anche agli algoritmi. Il problema rimane quanto ci vorrà per svegliarsi definitiva­mente, prima di finire nell’incubo.

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