Fede Galizia, sacerdotessa di una pittura senza tempo (e pioniera delle artiste)
Quando e dove nacque esattamente nessuno lo sa. Di certo Fede Galizia diede prova delle sue qualità pittoriche a Milano tra il 1587 e il 1630. Appartenne a quella schiera di artiste elette — Sofonisba Anguissola, Lavinia Fontana o Barbara Longhi — che per prime ebbero accesso alla professione di pittrice in un’epoca in cui il pennello era appannaggio maschile.
La sua famiglia proveniva da Trento, dove il Concilio, aperto nel 1545 e chiuso tra alterne vicende nel 1563 (quando dominavano il colto principe-vescovo Cristoforo Madruzzo e il nipote Ludovico), aveva opposto argini al protestantesimo e imposto rigidità ai costumi. Ma è provato che il nonno, il pittore Giacomo Antonio, fosse cremonese, fatto che attesta l’origine lombarda dei Galizia. Di fatto il padre Nunzio, pittore anch’egli, decise di trasferirsi a Milano nel ‘73 per sfuggire a una committenza che a Trento si rivolgeva ad altri artisti (Ligozzi e Carneri), e trovare nuovi sbocchi. Si sa di lui che era miniaturista, incisore, autore di apparati effimeri, costumi, ventagli e profumate sculturine in pasta muschiata, ambite dai cultori delle Wunderkammer di tutt’Europa. Trasmise la sensibilità per il lusso alla figlia che, nella tela del 1596 Giuditta e Oloferne (replicata in almeno sei versioni), inanellò fra i biondi capelli dell’eroina, d’aspetto tutt’altro che efferato, monili ridondanti di perle e pietre che trovano pendant nell’abito sfarzoso ricamato di gemme.
Nell’ambiente milanese Fede aveva intrecciato importanti relazioni con artisti e letterati, il Lomazzo e il poeta Gherardo Borgogni, che ritrasse. Attesta le sue frequentazioni anche il Ritratto di Paolo Morigia (1592-1595), scrittore attento alle imprese degli uomini d’arte. Fu lui a contribuire alla diffusione della fama dei milanesi Miseroni e Saracchi, autori di oggetti in oro, argento, gemme, a Praga alla corte di Rodolfo II d’Asburgo, sensibile a tutto ciò che fosse improntato al gusto del «meraviglioso».
Alcune opere di Fede stessa, come riporta il Borgogni, giunsero a lui nel 1593 grazie all’Arcimboldo, anch’egli milanese e assai apprezzato dal sovrano. In particolare, di Fede, più che i ritratti, spesso di piccolo formato, e i quadri religiosi, furono le nature morte, di ascendenza fiamminga e «ricche d’anima», ad accendere le bramosie della committenza, sulla via che dal Figino conduceva al Caravaggio, e a consacrarne la fama.
Ma quale fu la sua vita privata? Mai si sposò e affiancò, superandolo, il padre nell’attività prestata a governatori spagnoli e corte sabauda. Prova del loro rapporto è l’Allegoria celebrativa di Candido Menochio
e Margherita Candiani (1605-06), in cui a lei si deve la raffigurazione su rame dei volti, a lui la cornice dipinta su tavola. Ultima traccia di Fede a Milano, devastata dalla peste, il testamento redatto nel 1630. Ma il documento non comprova la sua morte. I fili della vita della pittrice compongono una trama ancora aperta, in attesa che giunga luce su una delle punte degli albori del barocco lombardo.