«Un modus operandi che sarebbe piaciuto pure al mio antenato»
Jeff Koons? Il novello Michelangelo. Non ha dubbi Joachim Pissarro, blasonato storico dell’arte, cocuratore della rassegna di Palazzo Strozzi e pronipote di quel Camille, che fu maestro dell’impressionismo. «Koons è il più grande scultore della sua generazione; ha saputo, da solo, rivoluzionarne il genere». Come? Innestando, in dialogo con la storia, l’arte pop sulla cultura arcaica, guardando «a quegli artisti senza nome, che sono i primi creatori dell’umanità; artisti paleolitici, cui Jeff fa riferimento molto spesso, soprattutto attraverso Balloon Venus».
Un modus operandi, azzarda Pissarro, che avrebbe intrigato e alimentato l’immaginazione creativa del celebre antenato, «che viveva nel futuro, in una certa utopia, dove si incontrano anarchismo ed ebraismo».
Per raccontare Koons — «che figura nel pantheon degli artisti viventi, qualunque sia l’apprezzamento personale che si ha per il suo lavoro» — Pissarro ha sviluppato un filo conduttore inedito, declinato sulla magnifica ossessione dell’artista: il concetto di lucentezza, shine in inglese. «Termine che si riferisce a tutte le qualità, o difetti, dei prodotti commerciali: lo sfarzo, la brillantezza, i riflessi esagerati e appariscenti; tutto ciò che con l’arte sembra non avere nulla a che fare», dice. Ma attraverso una complessa indagine semantico-filosofica, che tira in ballo anche Immanuel Kant e Friedrich Nietzsche, Pissarro capovolge l’idea di apparire in quella di essere. E dalla superficie scende nella profondità di una ricerca dalle complessità inattese.
«Perché — sostiene — uno scintillio può abbagliare, ma una superficie specchiante riflette e talvolta fa riflettere. «Il mio lavoro abbraccia le metafore della luce, comprese filosofia e religione, come elemento costitutivo della vita», dice Koons.
Questa mostra, insomma, non intende ribaltare il giudizio controverso sulla sua opera, ma andare un passo oltre: abbattere il pregiudizio che ne tiene lontani. «Respingere le cose a priori è come aprire il dizionario, ma lavorare solo con metà delle parole perché escludi le altre», ha aggiunto l’artista.
L’antologica fiorentina corona una conoscenza di lunga data. «Risale al 2003 quando, di fresca nomina quale conservatore al MoMa, dovetti annunciare che un sostenitore aveva rinunciato al dono del celeberrimo Coniglio, perché appena stimato due milioni di dollari; nel 2019 è stato battuto per 91 milioni di dollari», ricorda Joachim.
Che confida di avere compreso l’importanza di Koons nel contesto artistico contemporaneo, però, molto prima, grazie a «una grande, controversa e — per certa critica newyorkese — scandalosa esposizione del MoMA nel 1990, High and Low, sul debito dell’arte “alta” nei confronti delle arti minori, dalla pubblicità alla grafica; mostra che si chiudeva proprio con la presenza di Jeff Koons».
Negli anni, tra i due è nata un’amicizia («ci vediamo regolarmente a dispetto delle nostre numerose famiglie») rafforzata da una complicità intellettuale («c’è una sorta di sinergia tra noi»), che in virtù di lunghi e profondi dialoghi ha permesso la costruzione della rassegna.
Anche se, confessa Joachim, «nessuna mostra di Koons è facile, nessuna; ma Jeff è circondato da persone che hanno l’abilità degli ingegneri della Nasa e a Firenze lavorare con Arturo Galansino e il suo team è stato un sogno».