Pappano: il pezzo di Berlioz è una sfida e a Santa Cecilia resterò ancora due stagioni
Un organico fuori misura, quattro bande, sedici timpani, ma un solo solista di canto, «che getta in maniera inattesa una luce consolatoria su un pezzo molto travagliato e torturato, ora fosco e brutale, ora maestoso». Antonio Pappano parla di un pezzo visionario, estremo come tanta musica di Hector Berlioz, la Grande messe des morts di cui è appena uscito il suo disco, con l’Orchestra del Concertgebouw di Amsterdam e il Coro dell’Accademia di Santa Cecilia.
«L’Orchestra viaggia parecchio ma il Coro poco e questa era una bella opportunità», racconta Pappano che resterà a Roma come direttore musicale per altre due stagioni. Il Concertgebouw è un punto d’arrivo: «È difficile disgiungere quell’orchestra dalla sala in cui suona, fa parte della sua identità al punto che non sai se il calore, la pastosità e la maestà derivino dall’orchestra o dall’Auditorium. Ci sono tanti fantasmi tra quelle
mura, Mahler ma non solo…». A Roma la sua direzione musicale durerà in totale 18 anni, quasi un terzo della sua vita: «La cosa di cui siamo fieri è che ora arrivano regolarmente grandi direttori».
Nei suoi otto concerti romani dirigerà anche novità e rarità italiane, Ambrosini e Ponchielli, De Sabata e la Messa di Gloria di Puccini. «Indago quello che si trova attorno a Puccini, la musica sinfonica italiana è poca ma c’è. E questo aspetto lo riproporrò quando, nel 2024, comincerò il mio lavoro come direttore della London Symphony Orchestra, che comprenderà anche un progetto sulla danza».
Per la prima volta dal 2005, non ha diretto l’inaugurazione di Santa Cecilia, cedendo il posto al direttore principale ospite Jakub Hrusa. Si carica troppo di aspettative una prima di stagione? «L’evento mediatico è importante, ma la cosa importante è il dopo, cosa succede durante l’anno».
Valerio Cappelli