Corriere della Sera

Addio a Licheri, sfiorò Alfredino Quel pozzo diventò il suo incubo

Nel 1981 a Vermicino si calò a 64 metri di profondità. Fallì, ma divenne un eroe

- di Giusi Fasano

La malattia Aveva il diabete, non ci vedeva quasi più e gli era stata amputata una gamba

«Per anni ho sognato la morte, sempre lo stesso sogno. Mantello nero e la falce a mezzaluna sulla spalla. Io stavo lì a proteggere un pozzo e quando arrivava le dicevo: vuoi passare? Vuoi Alfredino? Se lo vuoi devi prima fare la guerra con me perché io da qui non mi sposto. Lei se ne andava ridendo. “Ci rivedremo”, mi diceva».

Ogni volta che ripensava a quel sogno — da sveglio — Angelo ripeteva a sé stesso e alla signora dal mantello nero che «io sono qui, non ho paura». E chissà se davvero è andata così, l’altra notte. Chissà se quell’uomo dal fisico minuto e dal cuore grandissim­o se n’è andato senza paura mentre provava per un’ultima volta a difendere il suo pozzo.

Angelo Licheri aveva 77 anni ed era malato da tempo, sofferente e quasi completame­nte cieco. Ma la ferita che lo tormentava da 40 anni, e che non sarebbe guarita mai anche se ne avesse vissuto altri cento, era la sconfitta. Lui fu l’uomo che tentò l’impossibil­e; che si fece calare in fondo al pozzo artesiano di Vermicino in cui precipitò, chissà come, il piccolo Alfredino Rampi; fu il solo che arrivò a toccarlo, a 64 metri di profondità, a «pulire i suoi occhietti dal fango», a sentirne il rantolo; fu la voce che raccontò a quel bambino «tutte le cose belle che mi venivano in mente, gli promisi una bici nuova, che lo avrei portato a giocare con i miei figli...». Provò a imbragarlo e tirarlo su per 45 minuti, ben oltre i limiti massimi di resistenza ipotizzati. Fu tutto inutile. L’ultimo disperato tentativo fu «prenderlo per la canottieri­na, ma appena hanno cominciato a tirare sentivo che cedeva... E allora gli ho mandato un bacino e sono venuto via. Ciao piccolino».

Tutto questo la notte fra il 12 e il 13 giugno del 1981, quando Alfredino, sei anni, era in quel buco nero già da più di 50 ore. Lo avevano cercato in centinaia, ovunque. Finché qualcuno sollevò la protezione che chiudeva un vecchio pozzo. Dal fondo arrivavano lamenti. La storia del piccolo precipitat­o nel buio in quel cunicolo strettissi­mo tenne incollati alla tv 32 milioni di telespetta­tori che seguirono la diretta non-stop della Rai sulle operazioni di salvataggi­o. Angelo fu issato in superficie sanguinant­e, con la pelle tagliata dalle rocce e il cuore in pezzi per non essere riuscito a salvare Alfredino. Non ci fu casa italiana in cui non arrivò il suo volto sofferente e nessuno accostò mai il suo nome al senso di sconfitta che lui sentiva addosso. Un eroe, dissero tutti.

Ma a lui quella parola non piaceva. Lo aveva detto anche ai suoi tre figli, tornando a casa quella notte: «Non sono un eroe, sono soltanto uno che ha provato a salvare un bambino che aveva bisogno di aiuto». Il suo primogenit­o all’epoca aveva 11 anni. «Quando mi vide mi rimproverò» ci ha raccontato lui stesso nell’intervista per il 38esimo anniversar­io della tragedia di Vermicino. «Mi disse: papà anche noi siamo bambini. E se tu fossi morto laggiù? Gli risposi che ero andato da quel bimbo perché era in pericolo e che se fossi morto sapevo che i miei figli non sarebbero rimasti soli».

Non è stata una vita facile, quella di Angelo. Nato a Gavoi, in Sardegna, aveva vissuto un’infanzia poverissim­a. Suo padre se ne andò e lasciò sua madre con quattro bimbi piccoli e senza un soldo. Nei primi anni Sessanta provò a cercare fortuna fuori dall’isola e, appena diciassett­enne, cominciò a lavorare come garzone nel Circo Orfei. Il suo amico Antonio Lai racconta che «si fece incantare da quella vita vagabonda, solo che suo fratello non la prese bene e il rapporto fra i due si ruppe».

Si ruppe anche la relazione con la madre dei suoi figli, con i quali «ho solo lontani rapporti», come diceva lui. In questi ultimi anni, dopo l’amputazion­e di una gamba resa necessaria da una grave forma di diabete, Angelo viveva in una casa di cura a Nettuno. Era «isolato ma non solo», per dirla con le sue parole. «C’è ancora un bel po’ di gente che mi vuole bene. La sola cosa di cui mi dispiace è la vista che va proprio male». Vedeva ombre, Angelo. Il ricordo di Alfredino, però, è stato nitido fino all’ultimo.

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(foto di Ada Masella) Lo sguardo Angelo Licheri ritratto di fronte a una fotografia del piccolo Alfredo Rampi

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