LA «DIPLOMAZIA» DEI DRONI DI ERDOGAN
L’export delle armi come strumento efficiente di politica estera. Non è una novità. Ma la Turchia ne sta facendo una delle chiavi del suo attivismo sulla scena internazionale. Punto di forza sono i droni TB2, un modello costruito dalla compagnia Baykar Marina, il cui responsabile delle innovazioni tecnologiche, Selcuk Bayraktar, è sposato con la figlia più giovane di Recep Tayyip Erdogan, Sumeyye. Già due anni fa l’intelligence italiana in Libia aveva rilevato quanto i TB2 fossero stati cruciali per aiutare le milizie di Tripoli a respingere l’assedio delle colonne armate di Khalifa Haftar assieme ai mercenari russi loro alleati. Adesso questi stessi droni stanno diventando uno degli appigli del premier etiope Abiy Ahmed per salvare Adis Abeba contro l’avanzata dei guerriglieri del Tigray. Ahmed in persona si è recato da Erdogan in agosto per firmare l’accordo di cooperazione militare, appena dopo che il suo esercito era stato sconfitto a Mekelle. Le sue speranze appaiono fondate. I TB2 sono stati utilizzati con successo dai militari turchi per combattere le forze curde in Siria e Iraq. Un anno fa gli stessi droni contribuirono alla vittoria dei soldati dell’Azerbaijan contro quelli armeni nell’enclave contesa del Nagorno-Karabakh. Ognuno di questi scenari di guerra funge da volano pubblicitario per l’industria militare turca. Tanto che Marocco, Tunisia, Albania, Polonia e Kirghizistan li hanno già acquistati e la fila dei clienti cresce. Costano poco e ciò non guasta. I tecnici turchi hanno beneficiato dell’appartenenza del loro Paese alla Nato e quindi del facile accesso alle armi made in Usa. Elemento che permette di tagliare le spese della ricerca. Oggi il prezzo di un TB2 è compreso tra uno e due milioni di dollari, circa un decimo di un modello equivalente importato dagli Stati Uniti. Inoltre, Washington è restia ad esportare i suoi droni. Ankara, al contrario, si pone ben pochi problemi.