IL (CRESCENTE) RUMORE DELLE TASSE
Gli Stati Uniti, non senza contrasti, si apprestano a varare una riforma fiscale che prevede un forte incremento della tassazione sul reddito per finanziare gli investimenti pubblici. La Cina si appresta a fare altrettanto per colpire i nuovi miliardari e frenare l’incremento del prezzo delle case. In Giappone il nuovo primo ministro Fumio Kishida ha annunciato di volere aumentare la tassa sul capital gain per combattere le disuguaglianze. In Gran Bretagna il cancelliere Rishi Sunak ha varato un piano di oltre 40 miliardi di sterline di nuove tasse, per due terzi a carico delle imprese.
Immersi come siamo nella quotidiana gestione di un enorme ammontare di informazioni — il premio Nobel per l’economia Daniel Kahneman, nel suo ultimo libro, l’ha definito rumore — risulta sempre più difficile alzare gli occhi dalla cronaca e identificare alcuni trend che si stagliano all’orizzonte. Eppure, questi trend sono reali e ci riguardano molto da vicino. Il più importante, o almeno il più sentito dai cittadini di ogni parte del mondo, riguarda le tasse.
Per capire cosa sta causando quello che sembra un concerto mondiale di riforme fiscali, proviamo a immaginare una diga. Nel marzo del 2020, per impedire la desertificazione del pianeta colpito dal Covid, quella diga è stata abbassata e il mondo è stato inondato da un’enorme liquidità. La manovra, al netto di qualche inevitabile effetto collaterale, ha funzionato e oggi possiamo dire che il peggio è alle spalle. Ora, però, occorre riportare la diga a un’altezza «normale».
A spingere i policymaker in questa direzione non sono solo le disuguaglianze che si sono inevitabilmente create per lo tsunami di denaro. All’indomani della grande crisi finanziaria del 2008 lo storico britannico Niall Ferguson si chiedeva come mai le banche centrali si fossero focalizzate su una concezione tanto ristretta di inflazione, ignorando le bolle finanziarie e immobiliari. È una domanda che rischia nuovamente di rimanere senza risposta. Ecco perché la diga deve cominciare a risalire e perché le tasse sono inesorabilmente destinate ad aumentare. Nei prossimi anni il principale impegno della politica non sarà più determinare l’ammontare di metri cubi di acqua da fare affluire al sistema, ma creare canali e argini per direzionarla nelle zone volute.
Non occorre essere degli esperti per capire quanto questo compito sia ben più arduo. Una cosa è distribuire denaro fresco di stampa, tutt’altra ridistribuire quello esistente. Il modo in cui i governi nel mondo affrontano questa scelta è, all’apparenza, una ragnatela di norme la cui complessità ha fatto la fortuna di un’affollata schiera di professionisti. In verità la politica fiscale è un’impronta digitale che ci dice tutto della storia, della cultura, della ricchezza e della demografia di un Paese. Niente ci racconta di più su un popolo, del modo in cui viene tassato.
Per capirlo, andiamo a vedere le strade intraprese da quei laboratori di nuove tendenze che sono la Nuova Zelanda e l’Australia. I Kiwis, come vengono chiamati i neozelandesi, sono guidati da Jacinda Ardern, il primo ministro con il più alto grado di consensi al mondo. Di recente Ardern ha approvato l’incremento dell’imposta per le persone con i redditi più alti e ha aumentato il salario minimo a 12 euro l’ora. Ardern fa una politica che oggi definiremmo fortemente progressista.
I cugini australiani, gli Aussies, stanno seguendo una strada del tutto diversa. Il primo ministro Scott Morrison ha proposto un massiccio piano di riduzione delle tasse per le imprese e le persone fisiche in gran parte finanziato dai tagli al welfare. Morrison persegue una linea neoliberista che, superata la pandemia, vede lo Stato tornare a ridurre il suo ruolo rispetto al privato.
Per quanto uniti dalla loro remota collocazione e spesso considerati cugini, i due Paesi sono acerrimi rivali in molti campi — leggendarie le sfide tra le rispettive squadre di rugby — e anche in politica fiscale perseguono strade speculari. Condividono però il grande pregio della chiarezza. Il cittadino/contribuente sa per chi e per cosa voterà alle elezioni.
E in Italia? Per adesso il nostro premier ha smentito ogni ipotesi di nuove tasse. Siamo indietro, la crescita è ripartita e dobbiamo coltivarla come un prezioso germoglio. È una strategia illuminata che però si basa, quasi unicamente, sulla credibilità di cui gode Mario Draghi in Europa. Non durerà. A breve, nella più lontana delle ipotesi nel 2023, saremo chiamati alle urne. È lecito chiedersi per quale regime fiscale voteremo allora. Non abbiamo risposte certe. Di sicuro ascolteremo le quadrature dei cerchi di chi vuole spingere il lavoro a scapito della ricchezza ma senza ovviamente toccare la casa, che di quella ricchezza rappresenta oltre i due terzi, o chi spingerà i tagli di tasse per rilanciare l’imprenditorialità italiana ma, per carità, senza intaccare il welfare dei cittadini, anzi sostenendo insostenibili regimi pensionistici che sfidano le leggi demografiche.
Una certezza però l’abbiamo. Il rumore crescerà e diventerà quasi assordante. È inevitabile, quando ci sono nuove elezioni e in particolare quando si parla di tasse che spesso ne determinano il risultato. Ma si potrebbe provare almeno ad attenuarlo. In fondo a noi, cittadini italiani, basterebbe capire se votando stiamo scegliendo un Kiwi o un Aussie. La risposta sarebbe un momento di inaspettata chiarezza e di meraviglioso, emozionante silenzio.
Molti Paesi stanno varando riforme che prevedono un aumento dell’imposizione. L’Italia no. Ma cambierà