Corriere della Sera

IL (CRESCENTE) RUMORE DELLE TASSE

- di Paolo Basilico

Gli Stati Uniti, non senza contrasti, si apprestano a varare una riforma fiscale che prevede un forte incremento della tassazione sul reddito per finanziare gli investimen­ti pubblici. La Cina si appresta a fare altrettant­o per colpire i nuovi miliardari e frenare l’incremento del prezzo delle case. In Giappone il nuovo primo ministro Fumio Kishida ha annunciato di volere aumentare la tassa sul capital gain per combattere le disuguagli­anze. In Gran Bretagna il cancellier­e Rishi Sunak ha varato un piano di oltre 40 miliardi di sterline di nuove tasse, per due terzi a carico delle imprese.

Immersi come siamo nella quotidiana gestione di un enorme ammontare di informazio­ni — il premio Nobel per l’economia Daniel Kahneman, nel suo ultimo libro, l’ha definito rumore — risulta sempre più difficile alzare gli occhi dalla cronaca e identifica­re alcuni trend che si stagliano all’orizzonte. Eppure, questi trend sono reali e ci riguardano molto da vicino. Il più importante, o almeno il più sentito dai cittadini di ogni parte del mondo, riguarda le tasse.

Per capire cosa sta causando quello che sembra un concerto mondiale di riforme fiscali, proviamo a immaginare una diga. Nel marzo del 2020, per impedire la desertific­azione del pianeta colpito dal Covid, quella diga è stata abbassata e il mondo è stato inondato da un’enorme liquidità. La manovra, al netto di qualche inevitabil­e effetto collateral­e, ha funzionato e oggi possiamo dire che il peggio è alle spalle. Ora, però, occorre riportare la diga a un’altezza «normale».

A spingere i policymake­r in questa direzione non sono solo le disuguagli­anze che si sono inevitabil­mente create per lo tsunami di denaro. All’indomani della grande crisi finanziari­a del 2008 lo storico britannico Niall Ferguson si chiedeva come mai le banche centrali si fossero focalizzat­e su una concezione tanto ristretta di inflazione, ignorando le bolle finanziari­e e immobiliar­i. È una domanda che rischia nuovamente di rimanere senza risposta. Ecco perché la diga deve cominciare a risalire e perché le tasse sono inesorabil­mente destinate ad aumentare. Nei prossimi anni il principale impegno della politica non sarà più determinar­e l’ammontare di metri cubi di acqua da fare affluire al sistema, ma creare canali e argini per direzionar­la nelle zone volute.

Non occorre essere degli esperti per capire quanto questo compito sia ben più arduo. Una cosa è distribuir­e denaro fresco di stampa, tutt’altra ridistribu­ire quello esistente. Il modo in cui i governi nel mondo affrontano questa scelta è, all’apparenza, una ragnatela di norme la cui complessit­à ha fatto la fortuna di un’affollata schiera di profession­isti. In verità la politica fiscale è un’impronta digitale che ci dice tutto della storia, della cultura, della ricchezza e della demografia di un Paese. Niente ci racconta di più su un popolo, del modo in cui viene tassato.

Per capirlo, andiamo a vedere le strade intraprese da quei laboratori di nuove tendenze che sono la Nuova Zelanda e l’Australia. I Kiwis, come vengono chiamati i neozelande­si, sono guidati da Jacinda Ardern, il primo ministro con il più alto grado di consensi al mondo. Di recente Ardern ha approvato l’incremento dell’imposta per le persone con i redditi più alti e ha aumentato il salario minimo a 12 euro l’ora. Ardern fa una politica che oggi definiremm­o fortemente progressis­ta.

I cugini australian­i, gli Aussies, stanno seguendo una strada del tutto diversa. Il primo ministro Scott Morrison ha proposto un massiccio piano di riduzione delle tasse per le imprese e le persone fisiche in gran parte finanziato dai tagli al welfare. Morrison persegue una linea neoliberis­ta che, superata la pandemia, vede lo Stato tornare a ridurre il suo ruolo rispetto al privato.

Per quanto uniti dalla loro remota collocazio­ne e spesso considerat­i cugini, i due Paesi sono acerrimi rivali in molti campi — leggendari­e le sfide tra le rispettive squadre di rugby — e anche in politica fiscale perseguono strade speculari. Condividon­o però il grande pregio della chiarezza. Il cittadino/contribuen­te sa per chi e per cosa voterà alle elezioni.

E in Italia? Per adesso il nostro premier ha smentito ogni ipotesi di nuove tasse. Siamo indietro, la crescita è ripartita e dobbiamo coltivarla come un prezioso germoglio. È una strategia illuminata che però si basa, quasi unicamente, sulla credibilit­à di cui gode Mario Draghi in Europa. Non durerà. A breve, nella più lontana delle ipotesi nel 2023, saremo chiamati alle urne. È lecito chiedersi per quale regime fiscale voteremo allora. Non abbiamo risposte certe. Di sicuro ascolterem­o le quadrature dei cerchi di chi vuole spingere il lavoro a scapito della ricchezza ma senza ovviamente toccare la casa, che di quella ricchezza rappresent­a oltre i due terzi, o chi spingerà i tagli di tasse per rilanciare l’imprendito­rialità italiana ma, per carità, senza intaccare il welfare dei cittadini, anzi sostenendo insostenib­ili regimi pensionist­ici che sfidano le leggi demografic­he.

Una certezza però l’abbiamo. Il rumore crescerà e diventerà quasi assordante. È inevitabil­e, quando ci sono nuove elezioni e in particolar­e quando si parla di tasse che spesso ne determinan­o il risultato. Ma si potrebbe provare almeno ad attenuarlo. In fondo a noi, cittadini italiani, basterebbe capire se votando stiamo scegliendo un Kiwi o un Aussie. La risposta sarebbe un momento di inaspettat­a chiarezza e di meraviglio­so, emozionant­e silenzio.

Molti Paesi stanno varando riforme che prevedono un aumento dell’imposizion­e. L’Italia no. Ma cambierà

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