LE VERITÀ PARZIALI
Vorremmo risposte univoche, siamo impazienti: ma il non-sapere-ancora è aperto e onesto. Ogni scelta di contrasto alla pandemia non poteva che essere una mediazione
L’estate scorsa mi sono trovato a un pranzo. Le persone presenti, per età, erano già tutte vaccinate, alcune di loro avevano avuto il Covid. Mi ha colpito che si fossero sottoposte, quasi senza eccezioni, a un test sierologico per valutare quanto fossero protette, e che si siano messe, a un certo punto, a fare una specie di gara su chi fra loro avesse più anticorpi. Quasi nulla di quella conversazione aveva senso, sebbene venissero chiamati in causa i pareri dei rispettivi medici di famiglia e di questo o quel conoscente «esperto».
L’impiego dei test sierologici per quantificare il livello di protezione individuale dal Covid è fuorviante, eppure si è imposto nel pensiero comune. L’uso popolare dei sierologici è stato, in effetti, uno dei territori più ambigui della pandemia, forse anche a causa di una mancata scomunica ufficiale da parte delle istituzioni scientifiche. Ma sapere «quanto si è davvero protetti», dal vaccino o da un’infezione pregressa, sapere ciò che succede dentro di noi a livello anticorpale, è praticamente impossibile. Molto più saggio e cauto sarebbe trattare il nostro organismo come una scatola nera.
Stabilire il proprio livello di protezione, tuttavia, ci sembra di nuovo cruciale adesso, in questo avvicinarsi dell’inverno, con i parametri della pandemia che salgono e un certo nervosismo che di nuovo si diffonde. Per ragionare correttamente su questi temi non si può prescindere dal modo in cui l’efficacia dei vaccini, così come la loro graduale perdita di efficacia nel tempo (waning) vengono misurate. Entrambe le misure, infatti, si basano su ciò che si osserva dopo, a posteriori, e non nel singolo individuo ma nella popolazione. Non sui prelievi di sangue quindi, bensì sui numeri della pandemia. Più precisamente: la popolazione viene vaccinata e, a intervalli diversi di tempo, si osserva quanto la vaccinazione abbia influito sull’abbattimento della trasmissione e delle ospedalizzazioni. Se questi effetti positivi si riducono nel tempo, sempre a livello di comunità, allora si ha un waning e si prova a quantificarlo. Il che non è affatto semplice, perché costringe a confrontare periodi diversi, quando circolavano varianti con contagiosità differenti, e a stabilire cosa sia dovuto a cosa.
Potrebbe sembrare una spiegazione troppo tecnica, ma se non si ha chiaro questo, ovvero come si misura, non ci si può formare un’idea affidabile di quanto sta accadendo. E non si può esprimere un parere di alcun tipo sull’opportunità o meno delle terze dosi, né su come andrebbero organizzate.
Uno degli studi più esaurienti sul waning, di Sara Y Tartof et al., pubblicato su The Lancet, contiene la parola chiave «retrospettivo» già nel titolo. Mostra che nel caso del vaccino Pfizer l’efficacia contro l’infezione scende dall’88% del primo mese al 47% dopo cinque mesi. L’efficacia contro l’ospedalizzazione rimane invece elevata, 93%, anche dopo sei mesi. Questi risultati sono stati ricavati, per l’appunto, retrospettivamente, dalla statistica complessiva, dall’andamento dei contagi. Eppure, una volta ottenuti, hanno un preciso valore individuale. Molto più preciso e attendibile di quello dei test sierologici a pagamento. Sebbene il waning misurato possa non essere vero letteralmente, specificamente per me, io dovrei comportarmi come se lo fosse. Perché quello è il dato migliore che ho a disposizione. È il mio riferimento su quanto sentirmi protetto a uno, cinque, sei mesi dalla mia seconda dose, e su come comportarmi di conseguenza.
È anche il dato migliore in mano alle istituzioni. Nella settimana scorsa, in particolare per via di un servizio controverso di Report, è stato segnalato come la validità attuale del green pass, dodici mesi, sia in aperta contraddizione con le evidenze sul waning, che non ci permettono di guardare oltre un orizzonte di sei. È un’obiezione fondata. Ma per discutere il merito di un regolamento occorre, dal piano del singolo, saltare di nuovo a quello collettivo, e considerare che la validità del green pass deve per forza di cose essere modulata anche rispetto ad altre variabili: i tempi necessari per un’inoculazione ulteriore a tutti, le altre innumerevoli complicazioni logistiche. Si tratta necessariamente di una mediazione, come d’altronde è stata una mediazione ogni scelta di contrasto alla pandemia fatta fino a qui. Dire che il green pass, così com’è, non ha basi scientifiche è tendenzioso. Dovremmo semmai vigilare che si tratti della migliore mediazione possibile. Così come è lecito domandarsi, ad esempio, se le organizzazioni di sanità pubblica non dovrebbero pretendere che i booster siano ottimizzati al più presto rispetto alla variante Delta.
La nostra mente è affrettata. Sbanda continuamente, talvolta in una direzione talvolta in quella opposta, ma sempre alla ricerca di sentenze definitive. Sentiamo la notizia del farmaco approvato da Pfizer con un’efficacia altissima nel ridurre le forme gravi e concludiamo: adesso c’è la cura. Ci dicono che stando ai dati è necessario un richiamo per tutti e concludiamo che il vaccino non funziona veramente. L’Oms parla di quarta ondata in Europa, della possibilità di un altro mezzo milione di morti, e noi non andiamo a guardare quale sia l’Europa presa in esame dall’Oms, né quanto profonde siano le disomogeneità al suo interno in termini di vaccinazione. Siamo impazienti. Vogliamo delle risposte univoche. Perché una verità parziale, in divenire, è molto più scomoda da maneggiare. Purtroppo, però, è quella con cui ci confrontiamo da un anno e mezzo. Non una verità che esiste intera a priori, ma una verità che potremmo definire «incrementale», acquisita mese per mese. L’incertezza che la accompagna viene sfruttata facilmente come argomento dai detrattori dei vaccini e da quelli del green pass, con la conclusione sommaria: «Vedete? Non lo sanno neanche loro. Mancano le basi scientifiche». Ma ciò che distingue un atteggiamento scientifico da uno antiscientifico è proprio il rapporto che si intrattiene con il non-sapere. O meglio, con il non-sapereancora. Che nel primo caso è aperto e onesto, nel secondo è binario e opportunistico.
Basandosi su questa verità incrementale, la scienza non è in grado di formulare promesse a lungo termine, e nemmeno promesse completamente affidabili nel medio. E tuttavia è in grado di stabilire, come in ogni istante dei mesi trascorsi, che cosa sia più conveniente fare ora, nel presente, in base alle conoscenze accumulate. L’effetto positivo, anzi più che positivo, straordinario dei vaccini, è in questo senso un dato solido, che esiste già da molti mesi. Anche la necessità di un booster è emersa con chiarezza, ma quando e per chi — affinché la strategia sia ottimale — è sotto indagine (ed è un’indagine complessa). Non lo sapevamo prima, è vero, ma lo sappiamo adesso, e la nostra ignoranza di prima non significa niente. Scopriremo altre ignoranze andando avanti, perché la pandemia è ancora lunga. E, una alla volta, le supereremo.
Presente
Siamo in grado di stabilire che cosa sia più conveniente fare ora in base alle conoscenze accumulate