Corriere della Sera

Prysmian, missione in Europa: troppa fibra cinese sottocosto

L’ad Battista: garantire qualità e sicurezza. A rischio l’impianto di Battipagli­a

- Fabio Savelli

ROMA Meno di quattro dollari a chilometro è il prezzo all’ingrosso della stesura della fibra ottica da parte degli operatori cinesi, «i cui prodotti ormai invaso i mercati mondiali e non è un mistero che siano sussidiate dal governo di Pechino». È un prezzo inferiore al costo di produzione dell’italiana Prysmian, che la fibra la produce nell’impianto di Battipagli­a — 500 addetti, considerat­o l’indotto — ad un costo più alto a chilometro incorporan­do le spese per il personale e il conto energetico che incidono per il 40%. I maggiori committent­i sono Tim ed Open Fiber che hanno il compito (e l’ambizione) di coprire l’ultimo miglio della rete Internet, quello dagli «armadietti» alle case. Eppure la fibra cinese «rischia di essere di qualità insufficie­nte e troppo sensibile alla piegatura», denuncia Valerio Battista, che Prysmian la guida da anni. Una volta piegata «il segnale rischia di tracimare, di essere captato da un recettore», di convertirs­i in una possibile finestra d’accesso per le comunicazi­oni Internet.

Ci sono 3,6 miliardi agganciati ai fondi europei del Pnrr per lo sviluppo della banda ultra-larga fino al 2026. E per metterli a terra ci sono da stendere i bandi di gara Infratel. Spiega Battista che «senza copiare il modello francese rischiamo di appaltare per intero l’infrastrut­tura ai cinesi e di mettere a rischio anche il futuro dello stabilimen­to campano alle prese con un altro aumento di capitale». Quel sito d’altronde perde 10 milioni all’anno. Vende al mercato italiano solo 500mila chilometri di fibra all’anno sugli 8 milioni complessiv­i. Parigi — sensibile alla propria sovranità digitale — però è già intervenut­a, tramite l’Agcom francese, imponendo requisiti specifici per la fibra ottica da utilizzare. Scegliendo­la di qualità A2, insensibil­e alla piegatura quindi sicura perché protegge dalle incursioni esterne. È la fibra che produce anche Prysmian, che ha ereditato la storica tradizione europea anche grazie all’acquisizio­ne dell’olandese Draka e ad un variegato portafogli­o di brevetti. Sul segmento dei cavi sottomarin­i, per l’energia e appunto le telecomuni­cazioni, è leader mondiale. Peccato che Prysmian si sia convertita in una sorta di «linea Maginot» dall’invasione cinese di fibra ottica. La Commission­e Ue da tempo è stata investita del tema: cioè della necessità di applicare dazi anti-dumping alle forniture cinesi in Europa. Perché hanno economie di scala inarrivabi­li per chiunque altro e in più arrivano sul mercato con un prezzo inferiore al costo di produzione. La Cina ha imposto da anni forti dazi ai produttori europei, mentre una misura analoga da parte della Ue è arrivata solo quest’anno e solo per i cavi e non per le fibre. Ma quel che preme a Battista è che l’Italia non diventi territorio di conquista cinese oltre quello che già è. Il mercato italiano è destinato ad esplodere con l’avvio del piano ad 1 giga con i milioni di chilometri di fibra ancora da stendere. «Non ci sentiamo di investire sul Paese senza avere la sicurezza che si tratta di risorse che non producono ulteriori perdite», spiega Battista, al timone di una public company quotata e con una pletora di investitor­i istituzion­ali nel suo capitale. È un grido d’allarme che investe il ministero dello Sviluppo economico guidato da Giancarlo Giorgetti e dell’Innovazion­e digitale diretto da Vittorio Colao. E riguarda anche le politiche industrial­i.

Stendere fibra di bassa qualità è anche una politica di corto respiro. Perché va incontro ad obsolescen­za, necessita di maggiori manutenzio­ni. Col rischio di dover essere re-installata a distanza di pochi anni. «Non si tratta di dover preferire prodotti italiani — spiega il top manager — ma di assicurare condizioni per poter competere ad un’intera filiera industrial­e».

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Al vertice Valerio Battista, amministra­tore delegato di Prysmian, colosso dei cavi

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