Il bestseller di ghiaccio
Esce oggi nella rinata serie degli Struzzi Einaudi «Paese dalle ombre lunghe», caso letterario negli anni Cinquanta Torna il romanzo di Hans Ruesch, pilota e scrittore. Che raccontò il Polo senza vederlo
Il romanzo del dopoguerra più di successo sugli Inuit si deve a un «napoletano» che non era mai stato nell’Artico, né aveva visto un eschimese, se non al cinema. L’autore di Top of the World, bestseller da tre milioni di copie, pubblicato nel 1950 dall’editore Harper di New York, era un pilota di Gran Premio, nato e cresciuto a Napoli da genitori svizzeri. Poliglotta e di ricca famiglia, Hans Ruesch giovanissimo si era messo in luce nelle gare automobilistiche internazionali, correndo per Maserati e Alfa Romeo. Nel frattempo aveva scritto un romanzo in tedesco, Gladiatoren, uscito a Berna nel 1937, e dedicato a un suo compagno di scuderia (con Tazio Nuvolari), il campione europeo Rudolf Caracciola; il testo fu da lui poi tradotto in inglese, e nel 1953 trasformato in un film con Kirk Douglas.
Con lo scoppio della guerra Ruesch si trasferì però in Francia, e quindi in Portogallo, dove nel 1940 si imbarcò per l’America. A 27 anni poté così dedicarsi a tempo pieno all’attività di autore di racconti per riviste, e traduttore, dividendosi tra New York e Beverly Hills, dove sognava già Hollywood.
Più che con le esplorazioni polari fu però costretto a impegnarsi con gli strascichi giudiziari di alcune vicende di letto. Charles Chaplin lo chiamò infatti a testimoniare nel processo che una sua giovane amante, l’attrice Joan Barry, gli aveva intentato per il riconoscimento di paternità della figlia. Ruesch dovette spiegare perché la donna avesse trascorso ripetutamente la notte a casa sua, e si difese sostenendo di essersi trasferito in albergo pur di liberarsene. Alla fine la paternità di Chaplin venne disconosciuta, anche se il comico si fece carico del mantenimento. Rientrato a Napoli nel 1946, lo scrittore avrebbe approfondito il tema delle triangolazioni amorose, alla luce degli studi sulle culture dell’Artico. E il motivo della promiscuità degli Inuit, nella sua naturalezza così agli antipodi rispetto ai tabù sessuali dell’uomo bianco, avrebbe avuto una centralità anche nel suo nuovo romanzo.
«Finalmente avrebbe avuto una moglie tutta per sé da comandare: una novità per lui, giovane abitante del Nord più remoto, dove le donne scarseggiano e gli orsi abbondano. Ma Ernenek non ignorava l’importanza di una moglie tua che ti raschi le pelli, ti cucia i vestiti e stia ai tuoi scherzi quando fuori è buio. Soprattutto se è un buio lungo sei mesi». Comincia così Top of the World, in italiano Paese dalle ombre lunghe, romanzo che fu elogiato da Thomas Mann, e ora Einaudi ripropone nella traduzione integrale di Daniele Petruccioli.
La critica all’epoca ne sottolineò la «forza documentaria», anche se nel libro tutto è invenzione, o meglio, frutto di una rielaborazione romanzata. Ruesch non fa mistero delle sue fonti, citandole già nelle prime righe. Ci sono i diari di esploratori come Knud Rasmussen e Peter Freuchen, che con le loro spedizioni etnografiche, tra il 1912 e il 1933, perlustrarono l’Artico circumpolare da un estremo all’altro, aprendo nuovi orizzonti alla conoscenza degli Inuit. L’eschimese di Freuchen peraltro fu portato sullo schermo da W. S. Van Dyke, il regista del primo sonoro su Tarzan, in un film che fu d’ispirazione per lo scrittore svizzero. Ma a nutrire la sua fantasia furono anche i testi di antropologi come Franz Boas (The Central Eskimo) e i resoconti di Fridtjof Nansen, con le sue epiche traversate con gli sci e le derive al Polo Nord (Nel cuore della Groenlandia e Fra ghiacci e tenebre).
Il titolo è rivelatore di dove è ambientata la storia, nonostante manchi qualsiasi riferimento geche ografico, perché con «il tetto del mondo» la pubblicistica di quegli anni usava indicare l’estremo Nord della Groenlandia, oltre il 77° parallelo, dove proprio Rasmussen e Freuchen nel 1910 avevano aperto la stazione di Thule: un avamposto strategico per la difesa americana, perché situato nel punto più vicino, in linea d’aria, al comando navale di Murmansk, dove l’Unione Sovietica aveva schierati i suoi sottomarini nucleari. Durante la guerra l’amministrazione Roosevelt, che aveva esteso la protezione delle potenze alleate alla Groenlandia, vi allestì una base aerea, che mantenne anche dopo il 1945, sebbene l’isola ricadesse sotto la sovranità danese.
Il romanzo ricostruisce le vicissitudini di due generazioni di Inuit, prima dell’incontro/scontro
con l’incombente civiltà occidentale, a partire da Ernenek, il protagonista di questa saga familiare — interpretato nel film che ne venne tratto nel 1960 (Ombre bianche nella versione italiana, visibile su YouTube) da un improbabile Anthony Quinn con gli occhi a mandorla. Il quale, «stanco di dover chiedere il permesso» per condividere le donne altrui, decide di metter su famiglia con la prima che gli capita, cioè Asiak.
«Non che Anarvik glielo negasse: rifiutarsi di prestare una moglie o un pugnale sarebbe stata un’intollerabile meschinità. Pure, anche star sempre a chiedere favori era indegno di un membro di quel popolo tanto orgoglioso da denominare i suoi appartenenti Inuit, che vuol dire “uomini”, sottintendendo così gli altri, in confronto, non lo siano davvero; mentre il resto del mondo si ostina invece a chiamarli eschimesi, (…) “mangiatori di carne cruda”».
Veniamo così introdotti nella vita di questi «selvaggi innocenti», che con le loro pratiche e usanze sembrano uniformarsi unicamente alle leggi della natura, in un’esistenza quasi inconsapevole. L’autore ci descrive le loro gioie, fatiche e preoccupazioni quotidiane con la lente dell’antropologo, ma rischia continuamente di scadere nella macchietta, a causa della mancanza di esperienze dirette, come tanti romanzi di quegli anni sui nativi d’America. È un Artico semi caricaturale, quello che Ruesch mette in scena. Dove, ad esempio, non ci si esprime mai in prima persona, per un malinteso sulla grammatica groenlandese, che non conosce l’infinito, ma la forma già coniugata alla terza persona singolare. Dove si dorme per mesi, per sopravvivere al buio dei lunghi inverni, anche se gli archeologi nel frattempo hanno chiarito come questa specie di letargo fosse diffusa tra i primi nuclei paleoeschimesi, duemila anni prima della nascita di Cristo, quando non erano ancora state inventate la pietra focaia e la lampada a grasso. Dove ci si nutre solo di carni e interiora putrefatte, e — alla bisogna — anche di escrementi d’orso intrisi di sangue, perché altrimenti che selvaggi sarebbero? E dove si è talmente abituati al freddo estremo, che con otto gradi sotto zero l’aria diventa «soffocante» e i protagonisti si denudano. Esagerazioni che toccano una vetta di comicità con la morte di Ernenek, dissanguato dalle ferite riportate nella lotta contro un orso, che riesce però a uccidere a mani nude… tirandogli i genitali (sic!): lo scrittore non aveva evidentemente idea di cosa sia un orso polare, con i suoi oltre tre metri di altezza, e quasi una tonnellata di stazza.
Ma al di là di queste fantasie e incongruenze, il romanzo riesce comunque a rendere la spietatezza di un ambiente ostile, in cui l’unica legge che conta è quella della sopravvivenza. Ecco perché i deboli vanno sacrificati, si tratti di anziani, neonate o cuccioli, ugualmente condannati a morire al gelo: non ci sarebbero altrimenti risorse per tutti. E non sono esagerazioni: l’alpinista Robert Peroni ha fatto ancora in tempo, nei primi anni Ottanta del secolo scorso, ad assistere in Groenlandia al rito disumano dell’abbandono dei vecchi sul ghiaccio galleggiante.
Un ambiente estremo e violento, che al tempo in cui Ruesch scriveva poteva ancora apparire come uno spazio immaginario, la proiezione di un sogno collettivo, dove poter recuperare l’armonia perduta con la natura, e la libertà dai vincoli e le ipocrisie delle società moderne. Da qui, forse, il successo. Oggi anche questa illusione è svanita e l’Artico non è che lo specchio di un pianeta fragile, minacciato dai cambiamenti climatici.