Colle, la moltiplicazione dei tavoli inutili E un regista che non c’è
Ogni leader convoca incontri. Ma niente passi in avanti
Il soggetto manca, la sceneggiatura, ovviamente, pure, ma c’è una grande abbondanza di aspiranti registi. La corsa al Quirinale è partita, non si parla d’altro, ma l’impressione è quella del criceto sulla ruota: continuamente indaffarato e trafelato, ma sempre al punto di partenza. E allora eccola l’ultima novità: i tavoli. C’è quello di Enrico Letta, concentrato sulla manovra economica, ma con vista sul colle più alto, quello di Matteo Salvini, per ora solo telefonico, in attesa almeno della Befana, e c’è quello all’aperto di Giorgia Meloni, con alleati e graditi avversari, salvo poi bastonare gli uni e gli altri nel finale da protagonista.
Passi avanti, per ora, zero. E questo perché, bisogna farsene una ragione, un king maker non c’è. Non solo manca un partito guida, ma non c’è nemmeno uno schieramento in grado di indicare la via.
In realtà un partito, anzi un movimento, ci sarebbe: i Cinque Stelle sono ancora un esercito, nonostante le defezioni. Ma hanno perlomeno due generali che vogliono cose diverse. Giuseppe Conte pensa probabilmente a Mario Draghi, possibilità senza di andare disdegnare a elezioni la anticipate, ritagliandosi, per quanto ridotta, una compagine a sua immagine e somiglianza. Luigi Di Maio ha invece bisogno di tempo per farlo fuori, e ha un orecchio teso verso i movimenti della nave pirata (o della palude) centrista. E poi c’è il Commodoro, Beppe Grillo, sempre imprevedibile anche per chi lo conosce bene.
Al momento quindi i movimenti dei leader sono quasi obbligati: perché fermi non si può stare e soprattutto perché i gruppi parlamentari sono divisi al loro interno e graniticamente decisi a non allinearsi senza combattere. E allora ecco i tavoli, tanto per battere un colpo, che ad ora si sono conclusi tutti con un garbato: sì, certo, poi vediamo.
Matteo Salvini, al quale Italia viva riconosce il diritto di fare la prima mossa, magari con intenzioni cripto egemoniche, ha un problema grande più di una casa, almeno come Milano 2. Deve dipanare prima di tutto la questione Silvio Berlusconi. Il Cavaliere non demorde, è convinto di poter tenere il centrodestra al guinzaglio e si dice certo di poter raccattare, al voto segreto, una cinquantina tra Cinque Stelle, ex e non, qualche pseudo renziano e chissà chi altro, senza mettere limiti alla Provvidenza. Il leader leghista dovrà partire da lì, dovrà dimostrare che ce la mette tutta, prima di consumare quella candidatura e passare oltre. Anche perché Berlusconi al Colle vorrebbe dire rinascita dell’antiberlusconismo, al momento finito in un cassetto, e quasi certe elezioni anticipate. Passare oltre, porta a un bivio: o un accordo tipo quello che ci fu su Carlo Azeglio Ciampi, così ampio da rendere ininfluenti centristi e franchi tiratori, o sposare la linea di tenere Mario Draghi a Palazzo Chigi, cercando un candidato trasversale che potrebbe avere le sembianze di Pier Ferdinando Casini.
Enrico Letta, almeno nei sondaggi, ha portato il suo Pd ad essere primo per un’incollatura, ma i problemi non mancano. Lui non le teme ma il suo partito non è secondo a nessuno nel non volere elezioni anticipate e la corrente di Base riformista, guidata dal potente ministro della Difesa Lorenzo Guerini, non è sorda alle sirene centriste. C’è poi l’elenco telefonico (copyright Francesco Verderami, sul Corriere) degli aspiranti Pd al ruolo di capo dello Stato. Un crocevia che obbliga a passi felpati, soprattutto se la strada fosse quella di spingere Mario Draghi verso il Quirinale. È lui il «patriota» al quale pensa Giorgia Meloni? Al tavolo all’aperto di Atreju, che le ha fatto segnare un punto, ha detto «non lo so». Ma, si ragiona nel Palazzo, se dovesse battere la concorrenza del centrodestra alle elezioni, chi altro avrebbe la forza, anche nei confronti dell’Europa, di portare a Palazzo Chigi una con le sue origini?
Ma i tavoli languono e per ora prevale la politica degli strapuntini, i mille incontri e ammiccamenti riservati e silenziosi che sono attenti al magma di questo lungo fine della legislatura, che terminerà con il taglio di 345 tra onorevoli e senatori.
Se un king maker non c’è, la strada dei tavoli così convocati difficilmente sarà quella risolutiva, nessuno abdicherà per regalare la regia a qualcun altro. E allora, se si vuole scegliere un presidente largamente condiviso, servirebbe forse metaforicamente una Yalta, con i partiti che sostengono il governo e allargata a Fratelli d’Italia. Oppure tutti in Aula e ci si conta, esponendosi al rischio di agguati. Senza trascurare che tenere molto a lungo mille grandi elettori in una stanza, per quanto grande come Montecitorio, potrebbe non essere saggio in tempi di Covid.