Corriere della Sera

Folle, indefinibi­le Atalanta La dea che ha stregato una città

- Francesco Battistini

Giovane cronista, una domenica a Vittorio Feltri capitò di raccontare un’AtalantaJu­ventus. E siccome la Dea lo faceva godere già allora, gli veniva facile telefonare al giornale e dettare il pezzo a braccio. Frasi pulite e chiare, pochi aggettivi. Era l’epoca di Nicolò Carosio che in radio diceva il Diavolo, il Grifone, la Lupa... Così anche Feltri, per evitare troppe ripetizion­i nella dettatura, a un certo punto chiamò «Vecchia Signora» la Juve. Gli era vicino il suo direttore all’«Eco di Bergamo», monsignor Andrea Spada, un maestro, che fiutando il luogo comune lo fulminò: «Sbambossàd­e! Che stupidaggi­ni! Se vai da tuo fratello e devi spiegargli com’è andata la partita, che cosa dici? Che ha vinto la Juve o che ha vinto la Vecchia Signora?». Da quel giorno, giura Feltri, Vecchia Signora non l’ha usato mai più.

La Dea però è un’altra cosa. A Bergamo «diciamo Atalanta subito dopo mamma, forse prima di papà», racconta oggi il Vittorioso Direttore, perché l’Atalanta «è una grande mamma che alleva bravi figli», è «bella e matta», «pazza e zingara» e mille altre cose: «L’Atalanta dei miracoli, l’Atalanta che gioca bene, l’Atalanta che non annoia mai e segna più di tutti in Europa. L’Atalanta dei giovani, degli stranieri sconosciut­i che diventano fenomeni, che incassa montagne di soldi e coi bilanci sontuosi tra gli squadroni coi debiti fino al collo, l’Atalanta che gli ambiziosi delle superleghe non vogliono tra i piedi perché è solo una squadra di paese. L’Atalanta imbucata e rompiscato­le nel Rotary d’Europa. L’Atalanta strana, imprevedib­ile, indefinibi­le, inspiegabi­le. Un fenomeno paranormal­e». E quindi, una Dea.

Se il gran lombardo Gianni Brera fosse ancora vivo, disse una volta Gianni Mura, amerebbe l’Atalanta più d’ogni altra squadra. E probabilme­nte l’avrebbe scritto lui questo libro, Atalanta, la Dea che mi fa godere (Rizzoli), 160 pagine di conversazi­one fra Vittorio Feltri e Cristiano Gatti. Una «Cosa Nostra bergamasca». Il canto d’amore di due «gasperinos inedemonia­ti» (da Giampiero Gasperini, l’allenatore che ha sbancato l’Ajax e il Liverpool: se nella Treccani è finito il «sarrismo», perché non metterci anche il «gasperinis­mo»?). Il romanzo d’un piccolo squadrone che tremare il mondo fa. Una provincial­e che non ha mai vinto niente, a parte un’antica Coppa Italia, ma è come se: non si diceva lo stesso dell’Olanda di Cruijff? «Affrontare l’Atalanta è come andare dal dentista», confessò Pep Guardiola, il guru del tiki-taka. Con una fifa

che talvolta si maschera di disprezzo: «Non può esistere che in Champions possa arrivare un’Atalanta qualsiasi», disse l’incauto Andrea Agnelli, poco prima che la sua Juve si fermasse agli ottavi e l’Atalanta invece andasse avanti.

Papa Giovanni, Gimondi e l’Atalanta: a Bergamo «tutto il resto è contorno» e Feltri, figlio d’una Dea minore, non ha mai dimenticat­o di santificar­e quaresime e vitelli grassi. Se le ricorda tutte, le passioni e le resurrezio­ni: il roccioso terzino Gardoni, più bravo a menare che a giocare e perciò detto «Gardù, o pé o balù», piede o pallone qualcosa prende sempre; quel ragazzino gracile e minuto soprannomi­nato

l’oselì, l’uccellino, che in realtà si chiamava Gaetano Scirea e tanti ritenevano inadatto; gli anni di Lippi e di Mondonico, la Hall of Fame di Jepsson e Cabrini, Donadoni e Papu Gomez, Bobo Vieri e Pippo Inzaghi, l’immenso Ilicic e le partite vendute dall’idolo Doni; la curva leghista e i milioni di Percassi; l’introvabil­e portiere Pizzaballa delle figurine Panini; il famoso vigile Arrigoni, che all’uscita dello stadio Brumana indicava la direzione al pullman del Milan usando tre dita tre, proprio come i gol appena rifilati… Fo’ de cò, fuori di testa, si dice a Bergamo e dice Feltri di se stesso: l’Atalanta «mi ha fatto godere più di tutte le fidanzate che ho avuto nell’ultimo secolo».

Però però. Desùra o desòta, l’Atalanta è come Bergamo Alta e Bergamo Bassa ed è come la vita, alta classifica e bassifondi. E la storia, prima felice, sa farsi pure dolentissi­ma e funesta. «L’eterna regola sgualdrina» che nei momenti più belli riprecipit­a la Dea fra i semidei. La prima serie A arrivò con la Grande Guerra? L’unico trofeo lo vinse mentre moriva Papa Roncalli? La stagione d’oro sboccia nel deserto della pandemia. Due date segnano l’inizio del grande contagio, il Paziente Zero a Codogno e la Partita Zero dell’Atalanta, febbraio 2020: 4 a 1 contro il Valencia, 44 mila abbracci dentro San Siro, il tifo che si fa covid e «l’allegra follia che è stroncata e negata, soffocata in gola».

Il cumulo dei morti, i camion con le bare, le famiglie falcidiate. Ai bergamasch­i fo’ de cò, gente seria quando le cose si fan serie, in questi due anni è passato ben altro per la testa. La Dea continua a far godere, ma è un piacere diverso: «Ci vorrà del tempo — scrive Feltri —, un tempo interminab­ile di campionati sospesi, di giocatori malati, di calendari rabberciat­i, soprattutt­o di stadi vuoti, prima di tornare lentamente e faticosame­nte a una mezza idea di normalità. Sempre in attesa di un nuovo inizio, vero e spensierat­o. Non necessaria­mente migliore: a noi basta dove eravamo rimasti. Se il Cielo lo vorrà. Altrimenti sarà lo stesso».

L’«oselì», che in realtà si chiamava Gaetano Scirea, l’introvabil­e Pizzaballa delle figurine

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La formazione dell’Atalanta in una foto dei primi del Novecento

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