Nelle rime il Dna dantesco
Il ritmo delle terzine plasma i canti della «Commedia» come un codice genetico
Quando nella Vita nuova Dante usa l’espressione «dire parole per rima», se ne serve per definire la poesia in volgare. Tanto determinante è la rima che essa passa a designare, come una parte per il tutto, lo stesso componimento poetico. È così che le poesie non riunite in un canzoniere organico si possono definire, è appunto il caso dantesco, come «Rime». Basterebbe questa circostanza a richiamare la nostra attenzione sul meccanismo rimico, che assurge nella poesia delle origini a vera e propria intelaiatura strutturale. Il dato è ancora più eclatante se da canzoni, ballate, sonetti e altre forme ci trasferiamo alla terzina incatenata, forgiata da Dante appositamente per scrivere la Commedia.
Come è noto, quando l’Alighieri si apprestò a comporre il poema, probabilmente oggetto di assidue meditazioni prima della concreta elaborazione, egli non poteva contare su un metro narrativo di ampio respiro nella nostra tradizione: il Tesoretto del maestro di Dante, Brunetto Latini, era scritto in coppie di settenari a rima baciata, dal ritmo serrato e ripetitivo. Del resto Brunetto aveva sottolineato in quel testo gli inconvenienti dello scrivere in rima, proponendosi, ma l’opera rimase incompiuta e non realizzata per questo aspetto, di ricorrere alla prosa per alcune zone (di questo intento si ricorderà semmai il Dante della Vita nuova e poi del Convivio). Brunetto fa dire alla Natura ai versi 411-423 del Tesoretto: «Ma perciò che la rima/ si stringe a una lima/ di concordar parole/ come la rima vuole,/ sì che molte fïate/ le parole rimate/ ascondon la sentenza/ e mutan la ’ntendenza,/ quando vorrò trattare/ di cose che rimare/ tenesse oscuritate,/ con bella brevetate/ ti parlerò per prosa/ […]».
Dante aveva bisogno di un metro che fosse in grado di accogliere lo sviluppo dell’argomentazione, del racconto, del dialogato. E non temeva certo la difficoltà del concordare le parole in rima, considerando questo un cimento tecnico in grado di moltiplicare l’inventiva ma anche l’efficacia e la densità del tessuto testuale. Elaborò così (forse partendo dai terzetti del sonetto, forse dal serventese) le strofe di tre versi collegate tra di loro, perciò dette incatenate. Infatti la rima centrale di ogni terzina è ripresa da quella esterna della terzina seguente, per cui ciascuna rima si estende su tre parole nel corpo del canto, su due all’inizio e alla fine di esso. In tal modo il poeta aveva trovato il codice genetico del poema. Di tale codice, quasi una catena contenente il Dna della struttura poematica, la rima è l’informazione primaria, intorno a cui l’intero edificio è eretto. Studiare, memorizzare, ricercare le rime dantesche significa entrare nel laboratorio «fabbrile», artigianale del poeta e soffermarsi sul principio costruttivo del suo poema.
È per questo che da secoli, nella tradizione editoriale, alla Commedia si affianca, in varie forme, il rimario: si tratta di un elenco delle parole che rimano tra di loro, con le rime ordinate in sequenza alfabetica (per la Commedia si va da da -abbia a -uzzo). La tradizione di questo corredo al testo dura dal Cinquecento e arriva ai nostri giorni (un punto importante della sua fortuna si ha con il triestino Luigi Polacco, curatore a fine Ottocento del rimario perfezionato incluso nell’edizione Hoepli della Commedia), certo con cambi di funzione e di prospettiva. Un tempo si trattava di un catalogo utile anche a comporre poesia. Serviva inoltre a individuare, seguendo il ricordo delle parole-rima, un determinato luogo del poema e a favorire la memorizzazione. In seguito tale repertorio è diventato soprattutto un mezzo per studiare e comprendere la mirabile strutturazione dell’opera dantesca (penso alla voce di Ignazio Baldelli sulla rima nell’Enciclopedia dantesca e al rimario curato da Arianna Punzi): uno strumento di lavoro per la critica e l’esegesi, anche in relazione alla fortuna di Dante e al riuso delle sue clausole nei poeti successivi, non solo nell’ambito della terzina (la cui fortuna approda comunque a Pascoli e, in forme libere, a Pasolini, ma si potrebbe giungere fino a Patrizia Valduga). Ed è a partire da tale punto di vista che si giustifica il volume dedicato ai Rimari. Rimario alfabetico – Rimario strutturale, pubblicato nella collana Nuova Edizione Commentata delle Opere di Dante (Necod) presso Salerno Editrice: il volume, che include il testo del poema nella versione rivista da Enrico Malato, è curato da Simone Albonico e Giacomo Stanga.
Per la mia generazione, il rimario di riferimento è stato quello pubblicato da Einaudi nel 1975 a integrazione delle concordanze della Commedia (per concordanze si intende la lista di tutte le parole occorrenti in un testo, raggruppate per lemmi). Il rimario einaudiano dispone, all’interno della singola rima, le parole in puro ordine alfabetico (riportando il verso che le contiene): se prendiamo quella in -abbo, troviamo abbo (Inf. XXXII 5), babbo (Inf. XXXII 9), gabbo (Inf. XXXII 7). Il rimario dell’edizione Salerno organizza invece le parole all’interno della rima secondo l’ordine in cui ricorrono nelle terzine, riprendendo un modello risalente editorialmente al Seicento (troviamo dunque l’ordine abbo, gabbo, babbo, rispettando la progressione del testo dantesco: criterio particolarmente utile per le rime di alta frequenza, in cui altrimenti non si ricostruirebbe agevolmente l’aggregazione dei rimanti appartenenti alla stessa serie). Tale attenzione all’effettivo sviluppo del poema si conferma nella seconda parte del volume, occupata da un inedito «rimario strutturale»: vi si riportano in ordine progressivo le rime che occorrono in ciascun canto, segnalando riprese, anticipi, rime uniche.
Per lo studioso e il lettore è come avere davanti agli occhi lo scheletro della Commedia. Molto utili risultano poi gli indici approntati alla fine di questo secondo rimario, come quello delle rime uniche, le rime cioè che si trovano una sola volta in una cantica o addirittura nell’intera Commedia. Non stupirà, così, che il canto XXXII dell’Inferno, già sopra richiamato, conti ben sette rime assolutamente uniche nel poema, compresa la rara rima tronca in -ù (Artù-più-fu). Si tratta infatti del canto — una sorta di ripresa concentrata e moralmente giustificata dell’esperienza «petrosa» — in cui il poeta allude programmaticamente, sia pure per difetto, alla necessità di «rime aspre e chiocce»: le uniche che possano aiutarlo nell’impresa di «discriver fondo a tutto l’universo».