Corriere della Sera

I PARTITI POLITICI E IL NOSTRO FUTURO

- Di Antonio Polito

Ma le due cose — una scelta politica così importante e l’assenza di un qualsiasi ruolo degli elettori — non vanno tanto bene insieme. E rischiano di complicare ulteriorme­nte il già difficile rapporto tra l’opinione pubblica e la democrazia parlamenta­re.

Si dirà: ma è sempre stato così. Non è proprio vero. Un tempo la scelta del Presidente era meno gravida di conseguenz­e, e per questo poteva essere anche più combattuta, fino al record di 23 scrutini per l’elezione di Leone. Per quarant’anni, dalla fine del centrismo fino a Tangentopo­li nel 1992, i poteri del capo dello Stato sono stati infatti limitati da quel vero e proprio partitoSta­to che fu la Dc, perno e fulcro di una democrazia bloccata sì, e senza possibilit­à di alternanza, ma anche «protetta» dal fattore K. Il presidente di solito non doveva fare altro che assegnare l’incarico di formare il governo alla personalit­à indicata dai partiti di maggioranz­a. E magari, ogni tanto, alzare la voce, come hanno fatto sia Pertini sia Cossiga.

Poi, con la caduta del Muro e la grande svolta del 1994, la funzione del presidente è stata invece condiziona­ta, e talvolta apertament­e contestata, da quella specie di premierato di fatto che si è istaurato con il bipolarism­o e il sistema elettorale maggiorita­rio della Seconda Repubblica, e che ha prodotto per quindici anni l’alternanza a Palazzo Chigi tra Berlusconi e Prodi.

Ma da dieci anni a questa parte tutto cambia. La crisi finanziari­a, la crisi economica, la crisi dei partiti e lo sfasciarsi progressiv­o del bipolarism­o, hanno costretto i presidenti a un ruolo molto più attivo e diretto nella formazione dei governi. Basti pensare che dal 2011 a oggi ben quattro premier su sei non erano neanche parlamenta­ri eletti (Monti, Renzi, Conte e Draghi). E i loro governi sono durati in tutto quasi sette anni su dieci: sono cioè diventati la norma, non l’eccezione. In due casi poi, Monti e Draghi, si è trattato di veri e propri «governi del presidente», in cui il premier incaricato dal capo dello Stato si è cercato in Parlamento quella maggioranz­a che non si era manifestat­a nelle consultazi­oni, e ne ha ottenuto la fiducia.

Se la nave italiana in tempesta ha evitato di affondare sugli scogli del debito pubblico prima e della pandemia dopo, lo dobbiamo anche al coraggio e alla determinaz­ione con cui Napolitano e Mattarella hanno saputo interpreta­re correttame­nte la Costituzio­ne, usando appieno di quel sistema di poteri «a fisarmonic­a» saggiament­e approntato dai padri costituent­i. Ma ciò non toglie che una mutazione politica c’è stata: la crisi verticale di rappresent­anza dei partiti ha spostato al Quirinale il fulcro del sistema. Anche per questo la scelta del prossimo presidente è così importante; e perciò dobbiamo augurarci che questo Parlamento si riveli capace di eleggere una persona all’altezza dei predecesso­ri.

Siamo però da troppo tempo in mezzo a un guado: restiamo una democrazia parlamenta­re, ma che non riesce più a formare maggioranz­e di governo nelle urne, con il voto (per due elezioni di seguito, 2013 e 2018); e sempre più spesso non riesce nemmeno a formare maggioranz­e stabili e durature in Parlamento, dopo il voto.

Che fare, dunque? La cosa peggiore sarebbe fingere di non vedere. E perdere anche l’occasione del dibattito in corso sulla scelta del nuovo presidente per avviare finalmente una riflession­e sulla strada da prendere. Vogliamo tornare a un regime parlamenta­re autosuffic­iente, riportando nelle due Camere

il centro del potere, elevando la rappresent­atività elettorale e la qualità del personale politico, riformando i partiti in senso democratic­o? Oppure preferiamo andare verso un’investitur­a diretta del capo del governo da parte dell’elettorato, che si tratti di presidenzi­alismo o di semipresid­enzialismo alla francese, trasforman­do così il rapporto tra esecutivo e legislativ­o, con tutti i bilanciame­nti istituzion­ali che questo comporta?

Che questa riflession­e non si possa più evitare ce lo dice proprio il gran dibattito in corso su come sfruttare al meglio e al servizio del Paese le notevoli capacità e l’indiscusso prestigio internazio­nale di Mario Draghi: se lasciandol­o per un altro anno a Palazzo Chigi, sperando che ci possa tornare anche dopo le elezioni, oppure mandandolo per sette anni al Quirinale, per svolgere quel ruolo di equilibrat­ore del sistema sotto la cui protezione avviare una grande riforma della politica.

Mentre discutono tra di loro e al loro interno su tattiche e strategie nel prossimo conclave di Montecitor­io, i partiti dovrebbero dirci anche questo: che tipo di democrazia hanno in mente per il futuro dell’Italia. Allora la scelta del presidente sarebbe anche più facile, certamente più comprensib­ile ai cittadini, e più lontana da quel «beauty contest», da quella gara di personalit­à e di potere, che finora è apparsa ai più.

Mentre discutono

I partiti dovrebbero dirci anche che tipo di democrazia stanno immaginand­o per il domani dell’Italia

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