Corriere della Sera

Tutte le ragioni morali per rifiutare una vincita

- di Franco Cordelli

Afine anno è giusto spendere una parola sulla situazione dei teatri a Roma. Tra quelli di maggior capienza e di storia illustri, il Teatro di Roma è commissari­ato. Mai dalla sua rinascita, dai tempi di Vito Pandolfi e Luigi Squarzina, l’Argentina fu trattato in peggior modo: fino a provocare ripetuti scioperi sindacali; e mai India, dal tempo di Mario Martone, fu luogo più confuso e di scadente programmaz­ione. Degli altri tre, l’Eliseo è e rimarrà chiuso — non ne sappiamo bene il perché. Il Valle, chiuso lo è da tempo: nessun sindaco si è preoccupat­o di riportarlo in vita.

Tra i teatri relativame­nte grandi (e privati) restano il Vascello e, da poco, il Parioli: entrambi intesi ad offrire al pubblico romano quel poco di buono che il teatro italiano è in grado di produrre. Che vi sia un problema nazionale sia nelle scelte che nella qualità dei risultati è un altro discorso: la fine del teatro di regia, teatro che implica la nascita di nuovi e bravi attori e la sopravvive­nza dei vecchi, è un dato di fatto. Il teatro che considerav­amo d’avanguardi­a non manifesta reali e continuati­vi sviluppi. Che cosa resta? Dove possono andare a teatro i romani che — prese le precauzion­i di norma — non abbiano particolar­i paure e desiderio di spettacolo dal vivo? A parte il Sistina e l’Olimpico con i loro peculiari repertori, ci sono una miriade, uno sciame, una quantità di piccoli teatri — dico «piccoli teatri», non «cantine» nel senso del secolo scorso — ciascuno con una più o meno dignitosa possibilit­à di proposte, dal Basilica al (nei programmi) discutibil­e Ghione.

Un mondo a parte, né piccolo né grande (benché non difettino di capienza) sono il Manzoni, la Sala Umberto, l’Ambra Jovinelli. Perché dico «mondo a parte»? Perché da sempre ben saldi nel mantenimen­to di un principio: offrire spettacoli che per comodità chiamerò popolari. Se si vuole è un merito. Ma è anche una responsabi­lità. Perché non variare un poco? Perché non ampliare, introducen­do nel programma di stagione un Molière, un Pirandello, un Giulietta e Romeo?

Al Manzoni, domani sera, chi vuole avrà l’opportunit­à di passare il Capodanno in compagnia degli attori di I soldi, no, una commedia della scrittrice francese Flavia Coste. È la storia di un uomo che da vent’anni gioca al lotto, per seguire le orme del padre.

Il giorno che ha la sorpresa di vincere 162 milioni di euro decide di non ritirarli e non dirlo né alla moglie, né alla madre, né al miglior amico. Quando non ce la fa più a tacere, si può immaginare la reazione dei tre di fronte alle sue ragioni morali: i soldi rovinano tutto. È una commedia in due tempi allegra e divertente. C’è una rediviva e in gran forma Corinne Cléry e tre attori che potrebbero recitare in qualunque teatro, in qualunque testo classico. Sono Enzo Casertano, Roberto D’Alessandro e Maria Cristina Gionta, che quest’estate abbiamo visto, strepitosa, in ben diverso (drammatico) ruolo all’Archivio di Stato. La regia è di Silvio Giordani.

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Da sinistra, Maria Cristina Gionta, Roberto D’Alessandro, Enzo Casertano e Corinne Cléry in «I soldi, no»
In scena Da sinistra, Maria Cristina Gionta, Roberto D’Alessandro, Enzo Casertano e Corinne Cléry in «I soldi, no»

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