Corriere della Sera

Mehta, sontuoso e trasparent­e il suo Beethoven

- di Gian Mario Benzing

Un brivido, ascoltare l’opera che inaugura la nuova sala Zubin Mehta, aperta nel Teatro del Maggio Fiorentino, con lo stesso Mehta sul podio: Fidelio di Beethoven (in scena fino al 2 gennaio), inno beneaugura­nte alla libertà e all’amore che vince. Un balsamo per questi tempi; un «bagno di gioia», come dice il sovrintend­ente Pereira. A dispetto di una certa incompiute­zza. Manca ancora la buca dell’orchestra: Mehta dirige dal palco, dietro i cantanti, e deve voltarsi sovente, per reggere il flusso delle voci. Non ci sono vere scene, ma al regista Matthias Hartmann e allo scenografo Volker Hintermeie­r basta poco, una corda, una sedia, costumi di astratta inquietudi­ne, per dire tutto (inutile quindi forzare così la gestualità, fino a renderla fasulla).

Lise Davidsen (Leonore) svetta con potenza soave, a contrasto con l’allucinata «fragilità» di Klaus Florian Vogt (Florestan), la saldezza di Franz-Josef Selig (Rocco) e di Francesca Aspromonte (Marzelline). Ma il vero splendore è come Mehta (oltre 10 minuti di ovazioni finali) plasmi, con tempi larghi e la profondità di una vita, il tipico sprechende­s Orchester, l’«orchestra che parla», suono insieme sontuoso e trasparent­e; esaltato dall’acustica di una sala che, dal parquet di rovere ai grandi blocchi di legno d’okumè, avvolge con calore e rigore. La soffice fusione degli archi si specchia nell’ottimo coro, altro bel rovere; senti il pizzicato dei contrabbas­si, le volute del flauto, ammirevole, o l’oboe, angelo struggente che consola il buio del carcere, come averli vicini di poltrona: oltre che di gioia, un «bagno» di bellezza.

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