Un giornale in semiprigionia Via Solferino sotto Mussolini
1926-1945 Il terzo volume della storia edita dalla Fondazione Corriere. Qui l’introduzione dell’autore Il «Corriere» subì le direttive del regime ma conservò il suo prestigio culturale
Alla terza pagina del «Corriere della Sera» collaborarono nel periodo del quale qui ci occupiamo — il ventennio 1926-1945 — due premi Nobel per la letteratura (Grazia Deledda e Luigi Pirandello) e svariati accademici d’Italia, scrittori di successo come Lucio d’Ambra e Marino Moretti, il maggior storico e il maggior filosofo del Paese tra coloro che avevano aderito al fascismo, vale a dire Gioacchino Volpe e Giovanni Gentile (anche se il secondo, come vedremo, non poté scrivervi come e quanto avrebbe desiderato); e poi la maggiore autorità nel campo della critica artistica e architettonica, cioè Ugo Ojetti, nonché i due scrittori che con lui erano considerati gli incontrastati maestri di quel peculiare articolo di terza pagina che era l’elzeviro, Antonio Baldini ed Emilio Cecchi; e ancora, vari giornalistiscrittori, a cominciare da Dino Buzzati e Curzio Malaparte, capaci di firmare articoli notevoli, a volte strepitosi, sui più diversi argomenti. Già questo indica quale particolare rilievo abbia lo studio delle pagine culturali di quello che era, per l’autorevolezza e per il primato nella diffusione, il principale quotidiano italiano.
Alla fine dell’Ottocento era stato proprio un articolo del «Corriere» a dare notorietà a una scrittrice semisconosciuta come Ada Negri, segnando «l’inizio di un successo inaspettato e inarrestabile, che si trasformò presto nel caso letterario di quegli anni». Dunque l’autorevolezza del giornale sotto il profilo culturale, la sua capacità di determinare con un articolo la notorietà di qualcuno, non erano una novità. Se nel 1926 l’architetto Gustavo Giovannoni, scrivendo all’amico Ojetti, poteva definire il «Corriere» come «uno dei maggiori centri direttivi della vita pubblica e del pensiero italiano», questo era evidentemente il frutto di una storia che durava da decenni. Ma un simile ruolo proseguì e probabilmente si rafforzò, per quanto a prima vista possa sembrare paradossale, durante la dittatura fascista.
Una recensione sul «Corriere della Sera» rappresentava allora «il grande viatico nazionale», scriveva nel 1935 Luigi Barzini sr. al direttore. E in effetti il successo degli Indifferenti di Moravia nel 1929 fu in larga misura dovuto alla recensione positiva che gli dedicò sul quotidiano di via Solferino Giuseppe Antonio Borgese. Cose simili si potrebbero dire dell’elzeviro che Ojetti scrisse qualche anno dopo su XX Battaglione eritreo di Montanelli: «un bel libro (…) dove guerra e soldati si vedono attraverso al cuore d’un uomo». Avremo modo di percepire la grande commozione del giovane Buzzati dopo aver letto l’articolo di Pietro Pancrazi sul suo Deserto dei tartari. Analoga fu la reazione di un maturo studioso fronte come all’articolo Manara che Valgimigli sempre di Pancrazi aveva dedicato a un suo libro: «Stamattina, quando mi son visto il nome su quel gran giornale, mi son commosso». Grazie alla risonanza che aveva un articolo del «Corriere», Pancrazi poteva fare scoprire al grande pubblico uno scrittore come Giani Stuparich o dare improvvisa notorietà alla poesia di Diego Valeri («Tanta luce, gettata all’improvviso, o quasi, nel mio cantuccio di ombra, mi fa girar la testa», scriveva quest’ultimo all’amico recensore).
Scrivere sul «Corriere» poteva dare una grande notorietà. Negli anni Trenta una delle firme più note del giornale, Arnaldo Fraccaroli, quando era a Milano veniva spesso fermato per strada dai lettori. Un inviato inizialmente sconosciuto come Vittorio Beonio-Brocchieri grazie ai suoi reportage da ogni angolo del pianeta ebbe successo anche come conferenziere. Ha ricordato un suo ammiratore di allora, Cesare Bonacossa (figlio del proprietario della «Gazzetta dello Sport»): «Certe volte, quando lui parlava al Circolo Filologico di Milano, (…) i vigili erano costretti a bloccare il traffico nella zona dalla folla che si radunava là, che faceva a gomitate per poter entrare ad assistere alla sua conferenza».
Ma la storia della terza pagina del «Corriere», come si vedrà nei capitoli che seguono, si rivela anche un punto di osservazione privilegiato per cogliere certe dinamiche della società italiana durante il Ventennio, in particolare per quel che riguarda la vita culturale. È vero infatti che Mussolini e i capi del fascismo proclamarono, in più occasioni, la loro «feroce volontà totalitaria», ma questa ebbe una messa in opera sicuramente parziale, ciò che ha indotto molti studiosi a definire quello fascista come un totalitarismo imperfetto se non addirittura mancato.
Al di là di queste e consimili definizioni, i limiti di attuazione del progetto totalitario fascista
trovano un lampante riscontro proprio in quel terreno di contaminazione tra cultura e giornalismo che si realizzava nella terza pagina, dove vedremo all’opera una dittatura adusa a far convivere — nell’ambito della vita intellettuale — atti di coercizione e spazi di libertà (ovviamente sempre relativi e precari), incline a praticare un’azione di censura che non escludeva però la mediazione e la condivisione. Vale per le pagine culturali del «Corriere della Sera», in sostanza, quel che è stato osservato per il rapporto tra il potere fascista e le case editrici riguardo alla censura libraria: «Per parte sua — ha scritto a questo riguardo Giorgio Fabre — il ministero-guida, la Cultura popolare, aveva il potere di dare ordini perentori. Ma ogni volta finiva per prevalere la ricerca del consenso, e tornavano i patteggiamenti, le mediazioni, le concessioni, i piccoli o i grandi favori».
Vincoli
La censura era rigida in teoria, ma permetteva forme di mediazione a seconda dei casi