«Riscrivo Goldoni per l’opera lirica»
Michieletto: alla Fenice «Le baruffe» in veneto con sovratitoli, «Orfeo ed Euridice» a Berlino
Febbraio è il mese più «lungo» e appetitoso per Damiano Michieletto. Amor sacro e amor profano: dal mito di Gluck in Orfeo ed Euridice, l’8 alla Komische Oper di Berlino, al mondo popolare di Goldoni nell’opera Le Baruffe, il 22 in prima assoluta alla Fenice (nel mezzo l’8 la ripresa di Luisa Miller del 2009 all’Opera di Roma).
Cosa vuol dire, per un veneto, lavorare su Goldoni?
«C’è l’affinità della mia lingua madre, a scuola la maestra diceva ai miei genitori di non parlarmi in dialetto perché avrei avuto problemi di ortografia. Il dialetto lo uso quando mi diverto o sono arrabbiato. L’umanità di Goldoni di Le baruffe chiozzotte (che noi abbiamo intitolato Le baruffe), ambientata tra i pescatori di Chioggia, la ritrovo nei borghi veneti di oggi».
Il senso di appartenenza?
«L’avevo già sperimentata con Aquagranda, l’opera sull’alluvione del ’66. Si racconta qualcosa legato a un vissuto, a un’identità. E’ sempre stato così nel teatro, che ha senso se crea un dialogo con la comunità. Verdi sapeva a chi stava parlando».
Il libretto?
«E’ mio e di Giorgio Battistelli, che ha scritto la musica. Un lavoro di montaggio, a parte il prologo con il coro che è un’invenzione drammaturgica, il chiacchiericcio come rumore di fondo. La lingua di Goldoni non puoi mescolarla con altro. E’ in dialetto, ci saranno i sovratitoli in italiano. Vàrdete che te sbuso significa stai attento altrimenti ti faccio un buco. Una sorta di rap. Il dialetto poggia su accenti inconsueti? Sì, è vero, ma non è colore e non è folclore. Mi piace che sia un teatro moderno radicato in qualcosa di tradizionale e antico. C’è un’atmosfera inquieta data dal vento, dalla Laguna, da qualcosa mai fermo che anima un’umanità sanguigna: sono baruffe all’arma bianca, sassi, legni, coltelli, originate da una lite tra innamorati per una zucca offerta alla donna sbagliata, che produce una valanga. I personaggi non sono romantici né capaci di corteggiarsi, lo fanno in modo sbrigativo, ti amo ti odio. La nostra versione, rispetto a Strehler in prosa o alla riduzione in musica di Malipiero, è più fisica».
La scena?
«Sotto a un cielo e una nebbia creati da un macchinario che mescola videoproiezioni e grandi ventilatori, ci sono pareti di legno mangiato dalla salsedine del mare che raccontano questa umanità creando una geografia fisica, la piazza, una strada, un interno…E’ gente abituata a guardare il cielo e il mare. Lo spazio è metafisico e metaforico, come un porto e la lotta per la sopravvivenza, mentre i costumi sono concreti, poveri, realistici e rispettano un’idea del ‘700 anche se non ci sono merletti, parrucche, ciprie».
Altro mondo da Gluck.
«Lì ho lavorato sul mito come una sorta di favola morale. E’ una lezione sull’amore. Orfeo e Euridice sono due entità separate, logorati dall’abitudine, lei tenta il suicidio, lui si sente responsabile, va in ospedale, la sala d’attesa è la lunga attesa per ritrovare Euridice. Il personaggio di Amore ferma il tempo e lo conduce a un viaggio immaginario negli Inferi che lo porta a vedere Euridice con occhi diversi».
Valerio Cappelli