VERDI E LA PALERMO CHE NON DIMENTICA
L’appuntamento «I vespri siciliani» con la regia di Emma Dante apre domani la stagione del Massimo, a 30 anni dalle stragi di mafia e a 25 dalla riapertura del Teatro. Marco Betta, neosovrintendente, spiega il legame con la nuova coscienza civile della città
Ci sono due anniversari che innervano la stagione del Teatro Massimo di Palermo: le stragi della mafia, in particolare quelle contro Falcone e Borsellino di 30 anni fa e la riapertura del teatro, 25 anni fa. Sono date collegate, perché l’alzata di orgoglio dopo gli omicidi dei due giudici, le proteste, le lenzuola bianche produssero un’accelerazione per la fine del cantiere del Massimo, dopo la vergognosa chiusura durata 23 anni. Il Massimo è il simbolo (non solo culturale) della città, è il luogo dove la gente si raduna, si dà appuntamento.
La sintesi è nello spettacolo d’apertura: I Vespri Siciliani nella versione francese, per la prima volta a Palermo. Nella regia di Emma Dante la Palermo di oggi fa da sfondo all’oppressione e alla rivolta che Verdi racconta. Nella scena rivivranno spazi di cui la città si è riappropriata, come piazza Pretoria.
Il nuovo sovrintendente del Teatro Massimo, Marco Betta, dice che «l’arte è lo specchio del proprio tempo e la storia che ha intorno, e ha la capacità di resistere negli anni perché racconta il destino umano rispetto alle cose». Betta è stato per due volte direttore artistico, prima di raccogliere, come sovrintendente, l’eredità di Francesco Giambrone, passato all’Opera di Roma. È un’idea di arte partecipativa e di teatro sociale che racconta in presa diretta una città stratificata, diversa da tutte le altre, programma di allora, la Seconda così da dare (letteralmente, Sinfonia di Mahler, Resurrezione. grazie ai cori e ad altre iniziative) Betta era direttore voce alle tante etnie. artistico all’epoca in cui il Poi c’è la riqualificazione di Massimo rimase chiuso. Un rioni popolari come quello di teatro senza il teatro, si trattaIl Danisinni, a due passi da Palazzo Reale. «Adesso puntiamo allo Sperone». A sud di Palermo, è la piramide di pietra dove nel ‘700 venivano appesi i corpi squartati di coloro che venivano giustiziati.
Il Massimo, dunque, si fa teatro della memoria. Falcone e Borsellino vengono ricordati nell’opera L’eredità dei giusti di Marco Tutino (il 19 luglio, giorno dell’uccisione di Borsellino); e poi Cenere, «opera inchiesta» di Gery Palazzotto su musiche di Betta, dedicata ai misteri delle stragi di mafia, tradimenti, depistaggi, menzogne della storia giudiziaria italiana. Il 12 maggio per la ricorrenza della riapertura del Massimo, Michele
Mariotti dirigerà lo stesso va di ripartire da zero, liberandosi dalla stanchezza, dall’ignavia. Perché la chiusura fu una vicenda torbida in cui la mafia c’entrava e non c’entrava. «Quel pozzo senza fine era anche legato a un profondo disinteresse che si poneva nei confronti dell’arte e della cultura nel nostro paese. Il portone chiuso era un enorme cadavere, non era solo un edificio ma una sorta di morte culturale dentro la città. Certe iniziative, al Politeama dove fummo costretti a trasferirci, non si potevano più fare».
senso della memoria è un corto circuito che alimenta e forgia l’attività di Betta, dall’eloquio largo e forbito, profondamente siciliano nei suoi ragionamenti. Dice che «la sabbia del ‘900 se n’è andata col suo peso mentale non dichiarato. A me, musicista del secolo scorso, nato nel 1964, non sarebbe capitato di parlare con Richard Strauss, morto nel 1949. Eppure, per chi c’è oggi, siamo tutti compositori del secolo scorso».
Nato a Enna, Marco Betta si trasferì a 8 anni a Palermo, quando il padre fu nominato Provveditore agli studi. È stato formato da Eliodoro Sollimo, poi Armando Gentilucci e Salvatore Sciarrino. L’impronta eclettica in cui le correnti si incontrano e si disperdono, come il Rio Negro e il Rio delle Amazzoni, investe la sua musica, fatta di opere da camera, balletti, musiche da film per Roberto Andò... «Lavoro spesso per immagini. La composizione è l’espressione dei timidi, non è traducibile come la letteratura, sono frammenti del proprio diario emotivo che evocano senza intermediari corporei». Questa narrazione invisibile si nutre di un linguaggio definito ora minimalista e neotonale, ora dodecafonico. Ama il jazz, il rock, la musica popolare, perfino i Pooh: «L’importante è essere sé stessi». Nella sua musica coabitano le brume dell’infanzia a Enna, costruita su un altopiano («da bambino, sotto il belvedere, vedevo le nuvole»), e Palermo, il mare, la luce, il segno di antiche civiltà.