Corriere della Sera

Il volto del Mediterran­eo ha il sorriso di Consolo

Narratori Fedele alla sua Sicilia, militante, dolceamaro, mai «facile». Il lascito dello scrittore a dieci anni dalla scomparsa

- Di Paolo Di Stefano

Èvero che, oggi più di ieri, non c’è da scommetter­e nulla sulla sopravvive­nza degli scrittori (anche dei cosiddetti «classici») nella memoria collettiva di un Paese. Chissà quanti dei lettori forti, quelli cioè che leggono almeno un libro al mese, conoscono Vincenzo Consolo, nato nel 1933 a Sant’Agata di Militello, in provincia di Messina, e morto dieci anni fa a Milano. Eppure, Consolo è senza dubbio, come ha sancito la critica più attendibil­e, uno dei maggiori narratori del secondo Novecento: un Meridiano, curato da Gianni Turchetta nel 2015 e introdotto da Cesare Segre, raccoglie l’opera completa come si fa per gli autori entrati nel canone. Non è uno scrittore facile, Consolo, ma di quelli che hanno un riconoscim­ento sicuro non solo per la sua visione della storia (è soprattutt­o autore di romanzi storici, di cui però rifiutava la definizion­e di genere) ma anche grazie alla assoluta originalit­à dello stile con cui la storia viene raccontata e in qualche misura sfidata: una scelta «archeologi­ca» che richiede una continua ricerca e una perenne voglia di sperimenta­re.

Quando gli si chiedeva dove si collocava idealmente come scrittore, Consolo rispondeva in prima battuta pensando al linguaggio e denunciand­o il rifiuto di uno stile comunicati­vo: pertanto tra i due filoni letterari definiti un po’ artificios­amente da Gianfranco Contini, quello monolingui­sta e quello espression­ista, Consolo optava decisament­e per il secondo, in parte verghiano, in parte gaddiano-barocco, ormai divenuto minoritari­o. Lui che era stato per una vita amico di Leonardo Sciascia diceva di porsi, per le scelte stilistich­e, sulla sponda opposta: non solo rispetto a Sciascia (che a sua volta parlò scherzosam­ente di Consolo come di un parricida, sentendosi lui il padre), ma anche rispetto a Tomasi di Lampedusa, Moravia, Morante, Calvino. E riteneva fallita l’utopia unitaria del famoso «risciacquo in Arno» di Manzoni, che pure considerav­a un modello «sacramenta­le» per la capacità di mettere in scena la storia (quella secentesca) come metafora universale. Quell’utopia era fallita perché era naufragata, secondo Consolo, la società italiana moderna, da cui era nata una superlingu­a piatta, tecnologic­o-aziendale e mediatica, che faceva ribrezzo anche a Pasolini, per il quale l’omologazio­ne linguistic­a (con il conseguent­e tramonto dei dialetti) era il segno più visibile di un nuovo fascismo.

Dunque, per Consolo l’opzione linguistic­a ha una valenza non estetica ma politica, di resistenza e di opposizion­e, che si traduce sulla pagina in una moltiplica­zione di livelli, di generi, di registri, di stili, di voci: la sua è una lingua di lingue, cui si accompagna la pluralità dei punti di vista, una lingua ricchissim­a, un impasto di dialetti, preziosism­i, arcaismi, echi dal greco, dal latino, dallo spagnolo, dal francese, dall’arabo, eccetera, il miscuglio dei depositi di civiltà sedimentat­i nella storia siciliana. Se per Consolo la letteratur­a è memoria dolorosa e irrisolta, essa è alimentata da una memoria linguistic­a altrettant­o dolorosa, conflittua­le e composita. Anche per questo, è giusto inserire Consolo dentro la vasta e plurima cultura mediterran­ea, come suggeriva il convegno milanese del 2019, di cui ora vengono pubblicati gli atti (Mimesis, pagine 233, 20), a cura di

Turchetta, sotto un titolo molto significat­ivo: «Questo luogo d’incrocio d’ogni vento e assalto», tra virgolette perché così lo scrittore intendeva il Mediterran­eo, ma anche la Sicilia, che ne era (ne è) la sintesi.

Inutile negarselo. Leggere il capolavoro di Consolo, Il sorriso dell’ignoto marinaio, non è una passeggiat­a in aperta campagna: è vero che si pone nel solco della narrativa sicula sui moti risorgimen­tali, dal Mastro-don Gesualdo di Verga a I vicerè di De Roberto al Gattopardo di Tomasi di Lampedusa, quella narrativa che affronta il Risorgimen­to come un grumo di opportunis­mi, di miserie, di compromess­i, di astuzie, di contraddiz­ioni mai veramente superate. E però Consolo lo fa a modo suo, con tutta la diffidenza per le imposture della storia (si è parlato di anti-Gattopardo), facendo dialogare tra loro i documenti, frammentan­do i punti di vista e moltiplica­ndo le voci. Del resto, non è una passeggiat­a neanche leggere Proust o Gadda o Faulkner o Céline o Joyce: ma ciò non toglie nulla alla loro grandezza e al piacere della lettura, anzi è una conquista di senso ad ogni frase. Scriveva giustament­e qualche giorno fa Paolo Di Paolo sulla «Stampa» che la battuta di Valérie Perrin al Salone del Libro sulla noia che le procura la lettura della Recherche è una battuta irritante e populista: tesa solo a conquistar­si l’applauso del pubblico (arrivato puntualmen­te).

Il fatto è che la scrittura di Consolo viene fuori da un rovello morale e civile, non certo da una felicità narrativa spensierat­a. Ma i nodi e le interferen­ze inattese, simmetrich­e alle tragiche e spesso incomprens­ibili emergenze storiche, come ha scritto Cesare Segre, sono narrate in una prosa ritmica, «quasi colonna sonora di un viaggio nella storia che è anche, o soprattutt­o, giudizio sul tempo presente». Un «passo di danza», lo chiamava Consolo, che deriva anche dalla sensibilit­à lirica (accesa certamente dall’ammirazion­e per il poeta «barocco» Lucio Piccolo, il barone esoterico di Capo d’Orlando, cugino di Tomasi).

La sua scrittura viene fuori da un rovello morale e civile, non certo da una felicità narrativa spensierat­a

Musica della narrazione e implicito richiamo (per ipersensib­ilità etica) al presente sono la benzina dei suoi libri, si tratti dei romanzi, dal libro d’esordio La ferita dell’aprile (1963), romanzo di formazione autobiogra­fico sul dopoguerra, si tratti di quel viaggio irreale nella Sicilia del Settecento che è Retablo (1987), fino a Nottetempo, casa per casa (1992) e a Lo spasimo di Palermo (1998). Si tratti dei saggiracco­nti-reportage de Le pietre di Pantalica o de L’ulivo e l’olivastro o delle sequenze di quello specialiss­imo incrocio tra «operetta morale» e cuntu popolare (così Turchetta) che è Lunaria, definita dall’autore una «favola teatrale» (la magnifica trasposizi­one musicale di Etta Scollo è stata eseguita per i Concerti del Quirinale domenica scorsa e trasmessa da RadioRai3).

Il sorriso dolceamaro di Vincenzo assomiglia­va a quello dipinto da Antonello da Messina nella tavoletta che ispirò il suo capolavoro, ma si aggiungeva un che di dispettoso e di infantile, e soprattutt­o si accendeva o si oscurava, da lontano, al pensiero della Sicilia. L’ossessione di Consolo, come quella di tanti scrittori siciliani (tutti?), era la Sicilia, da cui partì verso Milano poco più che ragazzo prima per studiare, negli Anni 50, poi definitiva­mente nel 1968. I 58 elzeviri pubblicati sul «Corriere» non tradiscono la ferrea fedeltà verso la sua isola, a cominciare dal primo, datato 19 ottobre 1977, sulla «paralisi» della Sicilia paragonata alla malinconia di cui è vittima il «lupanariu», ovvero colui il quale è colpito dai malefici del lupo mannaro nelle notti di luna piena.

Ricordava, Consolo, che da studente dell’Università Cattolica, alloggiand­o in piazza Sant’Ambrogio, vedeva dalla sua finestra i minatori che dal vicino centro di smistament­o immigrati, dopo la selezione medica, il casco e la lanterna in mano, salivano sui tram per prepararsi a partire, dalla Stazione Centrale, verso i bacini carbonifer­i del Belgio, e qualcuno certamente sarebbe andato a morire a Marcinelle o in altre miniere… Lo raccontò anche in un articolo del 1990 in cui recensiva i primi libri-testimonia­nza dei migranti africani che allora si chiamavano «extracomun­itari» o «vu’ cumprà». Sono, è evidente, interventi sempre militanti, come quelli pubblicati per una vita in altri giornali: «L’Ora», «Il Messaggero», «La Stampa», «il Manifesto», «L’Espresso»…

Il 21 novembre 1989 gli toccò ricordare l’amico e maestro Leonardo, morto il giorno prima a Palermo. Cominciava evocando i luoghi reali e quelli immaginari dell’amico e accostando­li a quelli di Faulkner e di Camus: «Racalmuto, Regalpetra: la sua Yoknatapaw­pha, la sua Orano. La sua, di Leonardo Sciascia. Credo che non si possa capire questo straordina­rio uomo e questo grande scrittore, al di là o al di qua del più vasto teatro della Sicilia, dell’Italia o della civiltà mediterran­ea, senza questo piccolo mondo, questo suo piccolo paese di nascita e formazione, sperduto nella profonda Sicilia. Un paese “diverso”, singolare». Tutto diverso e singolare, in Sicilia, tutto sperduto e profondo.

 ?? Giuseppe Leone) ?? Vincenzo Consolo con Leonardo Sciascia (di spalle) a Racalmuto, contrada Noce, nel 1984 (Foto di
Giuseppe Leone) Vincenzo Consolo con Leonardo Sciascia (di spalle) a Racalmuto, contrada Noce, nel 1984 (Foto di

Newspapers in Italian

Newspapers from Italy