Corriere della Sera

LE LOTTE ACCESE DENTRO I PARTITI

Di

- Ernesto Galli della Loggia

Difficile immaginare qualcosa di più increscios­o delle brutte figure che sta facendo in queste settimane il sistema politico italiano o per meglio dire le donne e gli uomini che ne sono i protagonis­ti. Si va dai palesi tentativi di acquisto di voti (li si chiami come si vuole ma di questo si tratta: e ne è protagonis­ta quella stessa destra che un anno fa si stracciava indignata le vesti perché Conte e i suoi amici cercavano di fare la stessa cosa che fa lei oggi) alle feroci lotte intestine all’interno dei vari partiti e schieramen­ti accuratame­nte dissimulat­e nell’illusione che gli elettori non si accorgano di nulla (mentre gli elettori invece si accorgono bene di tutto e, chiamati alle urne in un collegio di Roma, rispondono disertando­le al 90 per cento).

Si tratta di scegliere una persona, ma i politici reagiscono con una reticenza elevata a sistema

Ma su tutte queste brutte figure, su questi pessimi esempi, campeggia un fenomeno negativo più generale che dà compiutame­nte l’idea della degenerazi­one del sistema: la sua totale opacità proprio nel momento in cui esso è impegnato nella sua scelta più importante.

Per eleggere il presidente della Repubblica si tratta di scegliere una persona, di fare un nome. Ebbene, di fronte a questa incombenza come reagisce il sistema, e cioè i partiti che ne sono gli attori concreti? Con una sorta di omertà istituzion­alizzata, di reticenza elevata a sistema. Infatti, a parte Berlusconi che con sovrano sprezzo del pericolo ha comunque il coraggio di candidarsi (anche lui però con la successiva mossa quanto meno bizzarra di riservarsi di accettare la candidatur­a che lui stesso ha avanzato: quando si dice la doppiezza italiana!), a parte Berlusconi, dicevo, per il resto è stato finora un silenzio di tomba. Di un nome e cognome, di candidatur­e vere, esplicite, neppure una. Tutti i leader si sono presentati per giorni sugli schermi televisivi fintamente compunti e pensosi riparandos­i dietro le formule ripetute ossessivam­ente dell’«alto profilo istituzion­ale», della «irreprensi­bile moralità» addirittur­a della «persona per bene» nel consueto esercizio — tipico dei politici italiani quando parlano in pubblico — di buttare la palla fuori dal campo.

Va così in scena sotto gli occhi dell’opinione pubblica un clamoroso paradosso. Il fatto che tutti abbiano paura di perdere è la dimostrazi­one dell’importanza cruciale della decisione da prendere: ma proprio perché la decisione è così importante tutto deve svolgersi dietro le quinte, nulla di ciò che conta deve trapelare all’esterno. E quasi che anche agli occhi del futuro potente inquilino del Quirinale fosse dimostrazi­one di saggezza fare il possibile per non apparire tra i suoi mancati elettori. In un’atmosfera, insomma, che somiglia assai più a quella di un’oligarchia, dove si ha paura delle vendette, che a quella del regime costituzio­nale che per fortuna ci governa.

Può infatti, mi chiedo, una democrazia funzionare in questo modo? Può in uno dei momenti anche simbolicam­ente più cruciali della vita pubblica del Paese scegliere il silenzio elusivo, le allusioni, le strizzate d’occhio, i messaggi indiretti, gli accordi sottobanco veri o presunti? È ammissibil­e che la mancanza di pubblicità diventi la regola? Intendiamo­ci: nessuno è così ingenuo da pensare che non sia assolutame­nte fisiologic­o in qualunque regime, e dunque anche in una democrazia, l’accordo, il compromess­o, il do ut des, e che perciò in certi momenti vi sia anche un’ovvia atmosfera di discrezion­e. Tuttavia la riservatez­za è una cosa e gli arcana imperii un’altra, e tra un Parlamento e il gabinetto segreto dello zar sarebbe bene che restasse pur sempre una certa differenza.

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