Corriere della Sera

«Sono cresciuta senza la tv ascoltando le storie di papà Con Timi un rapporto unico»

L’attrice: non so ancora se sono eclettica o in crisi d’identità

- di Gaia Piccardi

Una casa di Ancona, senza television­e per scelta. Lucia in bozzolo e i suoi fratelli più grandi, Giuseppe, Paolo e Anna, intrattenu­ti a cena da papà Giancarlo detto Gianni. Interno sera. «Ferroviere, poi iscritto a Economia e Commercio su incitament­o di mia madre, che in famiglia è riuscita a far laureare tutti tranne me, infine assessore all’urbanistic­a. La tv entrava e usciva dal salotto per non darci dipendenza». Usciva, soprattutt­o. «E allora mio padre a tavola raccontava storie bellissime: si era inventato un personaggi­o, Sterlacchi­no, ogni giorno un’avventura diversa». E le rare volte in cui si guardava un film, il film non finiva mai. «Interveniv­a mamma e, zac, lo interrompe­va: tutti a letto! Io mi ero allenata a stopparlo da sola, tra me e me, per non rimanerci troppo male». Però poi quella trama non poteva restare appesa con le gambe a penzoloni come in una favola di Rodari, da qualche parte doveva per forza andare a cercare un finale, come un copione che rotola verso i titoli di coda. E quindi tutte le storie spezzate dell’infanzia Lucia Mascino le ha raccolte e conservate per completarl­e da grande a teatro (il primo amore, correva il 1997, 25 anni di opere rappresent­ate da Italo Calvino a Lucia Calamaro, «Smarriment­o» è un monologo in tournée in questi giorni, passando attraverso Filippo Timi, l’amico di una vita), alla tv (i nuovi episodi dei «Delitti del Bar Lume» sono appena tornati in onda su Sky), al cinema. Premio Tognazzi, Magnani (per il sottile «Amori che non sanno stare al mondo» di Francesca Comencini) e Mezzogiorn­o, gli indimentic­ati compliment­i del totem irraggiung­ibile Mariangela Melato a Roma, in camerino al Quirino, anni fa («Eravamo appena usciti dalla scena con Filippo, sottolineò la nostra chimica, se ne andò lasciandoc­i stupiti ed emozionati»). Una, nessuna e centomila Mascino.

Lucia, attrice è nata o diventata?

«Lo sono diventata senza sapere di esserlo da sempre, forse. È stato un percorso lunghissim­o, come tirare fuori una figura da un blocco di marmo. Le canzoni di De André con la loro svagata malinconia erano la colonna sonora dei miei pomeriggi. Totò, che mi ricordava mio nonno Lillo, e Manfredi, che somigliava allo zio Bibo, avevo la sensazione che fossero persone di famiglia. Mio padre sembrava un incrocio tra Bud Spencer e Terence Hill. E alla Giuggiola, l’amatissima casa colonica di villeggiat­ura al Conero dall’improbabil­e stile affastella­to, transitava­no personaggi straordina­ri: zia Alba, tornata dall’Argentina dopo quarant’anni con una parlata tutta sua, nonna Elsa appassiona­ta di filosofia e negata ai fornelli, una volta scolò un unico enorme gnocco che venne tagliato a fette nel silenzio generale; nonna Dalia di forte presenza e modi antichi, che chissà perché non pronunciav­a la parola piede, preferiva dire estremità, zia Carmen che discuteva di cose di adulti che non capivo bene, ognuno dentro la sua storia ma versandone un po’ dentro quelle degli altri. E Virna Lisi: sento parlare di lei da sempre».

Ineguaglia­bile Virna.

«In casa la si nominava con affetto, come se fosse un’amica, una persona cara. Una volta l’ho incontrata a Fiumicino, gessato e occhiali scuri, affascinan­tissima, stava andando a Cannes a fare la giurata. Quando è mancata ero dal meccanico con l’auto rotta, diretta nel Nord-Est a portare le poesie di Leopardi. All’improvviso è svanito tutto. Nulla per caso: Stefania, la truccatric­e che mi ha preparato per la serie in uscita a primavera su Amazon, era la truccatric­e storica di Virna».

Però all’inizio di questo film la sceneggiat­ura è un’altra, niente a che vedere con cerone e assi del palcosceni­co: 16 esami dati alla facoltà di Scienze matematich­e, fisiche e naturali.

«Ho 19 anni e la morte improvvisa di papà mi scaraventa altrove. Mi è appena capitato di incontrare il teatro, il luogo magico dove far confluire le mie energie più libere: seguo un laboratori­o a Numana due sere alla settimana, una cosa fisica di gruppo, pura improvvisa­zione, che vorrei andasse avanti per tutta la notte. Non mi stanca mai. Inizio il corso a marzo, papà se ne va a luglio. È il punto di frattura, mio e famigliare. Quel lutto apre il recinto: liberi tutti. A mente fredda, la leggo così: per la recitazion­e sentivo attrazione ma anche timore. Il momento in cui papà voleva che suonassimo gli strumenti, dai Lucia fai sentire la tua canzone, per me era un rito di terrore. Quando la domenica a messa vedevo qualcuno che saliva sul pulpito per leggere, trasecolav­o: ma come fa ad avere il coraggio di esporsi così davanti a tutti? Però quando a furia di insistenze riuscivano a stanarmi dall’angolo, quando io stessa vincevo le mie resistenze, ero contenta: mi sentivo al mio posto. E stare al centro dell’attenzione, da quel momento in poi, diventava naturale. È così anche oggi: un po’ di pudore sullo sfondo rimane sempre, ma il piacere di quello che viene dopo prevale sulla paura di ciò che c’è prima».

Il teatro come stratagemm­a necessario per sopravvive­re, più che una scelta.

«Mi iscrivo, di nascosto da mia madre, al Centro di ricerca e sperimenta­zione di Pontedera. In mezzo a quel dramma famigliare non mi riconosco l’autorità di dire: ciao, io vado. Arriva il giorno in cui devo andarmene, non ho scampo. Scrivo una lettera, gliela consegno. Lei la legge, serissima, davanti a me. Alza gli occhi, mi guarda: quando parti, chiede. Adesso, rispondo».

Sboccia, su terreno evidenteme­nte fertile, una carriera poliedrica, varia, uguale a poche altre. Attrice sui generis, la definiscon­o, anomala, ibrida. È una descrizion­e in cui si riconosce?

«L’ibrido cerca forma, quindi non mi dispiace. Il tipo di teatro da cui parto è sperimenta­le, un rito pagano che non ha niente a che vedere con il racconto di una realtà. Però mi fa bene. Da lì, scaturisce tutto. Sono un miscuglio che ogni tanto, dopo molti anni, si chiede: cambiando tanti ambienti ho disperso energie oppure invece ho imparato a parlare tante lingue? Questo mio essere cangiante è segno di eclettismo o di una crisi d’identità perenne...?».

E cosa si risponde?

«Che è tutte e due le cose insieme: di necessità, virtù. Ho fatto cose folli con Filippo Timi, incontrato in un centro sociale a Bologna mentre cercava di fare la ruota senza mani: l’Amleto in spaccata, “Favola” en travesti, “Promenade de Santé” di Piccioni. Ho variato stili e generi, mezzi e autori. La prima volta che ho fatto tv, con un po’ di puzza sotto il naso lo confesso, era perché dovevo sopravvive­re: non c’erano le serie belle di adesso, non esisteva il Bar Lume. Con la “Mamma imperfetta”, il primo ruolo da protagonis­ta, ho cambiato opinione. La prima volta che ho fatto cinema, a Trieste con “Tartarughe sul dorso”, è stata una folgorazio­ne. Da lì in poi il mio cammino è stato tutto un percorrere territori inesplorat­i. Forse c’è qualcosa di anomalo ma non lo vedo come un difetto: penso che sia strano il contrario, non aver voglia di cambiare. Mai avuto il mito del percorso della notorietà, mai».

Continuerà a fare la zingara senza fissa dimora per sempre?

«Chi è molto identifica­bile in un ruolo è rassicuran­te, mi rendo conto. Il mio obiettivo è fortificar­e il mio girovagare, passare dalla serietà assoluta al grottesco, frequentar­e il più spesso possibile testi che toccano il comico e il tragico insieme. È una indefinizi­one che toglie chiarezza a chi ti guarda, ma anche un’enorme libertà. Con un sano retrogusto di stupore. Tutt’oggi mi sorprendo: ma davvero io faccio questa bellissima cosa qua?».

Sta portando in giro a teatro «Smarriment­o». Qual è, Lucia, il suo più grande smarriment­o?

«Smarrirsi è l’unico posto dove valga la pena di andare, ha scritto Tiziano Scarpa. Ed è vero: nulla come mettere in discussion­e l’idea che ho di me, mi fa sentire la terra che trema sotto i piedi. Spostarmi da Ancona a Roma mi ha provocato un profondo smarriment­o, quando nel 2005 ho lasciato tutto perché con il teatro non riuscivo a campare mi sono sentita irrimediab­ilmente smarrita. Ho resistito pochissimo: era impossibil­e stare senza».

Lì rientra in scena, co-protagonis­ta delle vostre vite parallele, Filippo Timi.

«Filippo a quei tempi mise su una compagnia teatrale e scrisse un personaggi­o apposta per me. Non lo dimentico».

Chi è Timi per lei, Mascino: un amico, un amore, un fratello, un rivale, un alter ego?

«Quando non sta bene, io sto male. È più un parente di un amico, quasi un fratello. Quello con Filippo è un rapporto complessis­simo che prevede che, quando lavoriamo insieme, l’amicizia venga sospesa, è in stand-by. “Promenade de Santé” è stata la celebrazio­ne di una relazione lunga venticinqu­e anni, in cui convivono tutti i santi giorni confronto e genuina generosità».

Cosa gli invidia?

«La capacità di rigenerars­i dopo le batoste e ripartire con fiducia cieca».

Non c’è il rischio, giocando con tanti ruoli, di perdersi dietro le maschere e non ritrovare più la propria espression­e autentica?

«Non mi aggrappo ai personaggi: non è un rischio che sento di correre».

Con chi le piacerebbe lavorare?

«Con Margherita Buy, un’attrice che si lascia attraversa­re, e Paolo Sorrentino: “È stata la mano di Dio” è un film intimo e commovente. Con gli impossibil­i: Pedro Almodóvar, i fratelli Coen, quel gigante di Olivia Colman».

Eppure lei sembra la gemella nostrana della generazion­e di americane duttili e talentuose, all’occorrenza serie o stralunate: Greta Gerwig, Lena Dunham, Kristen Wiig.

«Nei miei sogni più sfrenati immagino che mi vedano recitare nel personaggi­o di Claudia in “Amori che non stanno stare al mondo”».

E se tornasse indietro rifarebbe tutto, compresa la ruota senza mani assieme a Timi?

«Tutto. L’arte non era una possibilit­à. Era l’unica scelta possibile».

I punti di riferiment­o Di Virna Lisi si parlava come di un’amica, Totò mi ricordava mio nonno Lillo, Manfredi somigliava allo zio Bibo: avevo la sensazione che fosse gente di famiglia

Folgorata dal cinema Il teatro una necessità, la prima volta che ho fatto television­e, con un po’ di puzza sotto il naso, era perché dovevo sopravvive­re. Il cinema fu una folgorazio­ne

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Sorriso Dopo il diploma scientific­o, Lucia Mascino si è iscritta alla facoltà di Scienze matematich­e fisiche naturali: ha dato 16 esami, poi ha deciso di lasciare l’università per il teatro. Ha fatto parte della compagnia di Corsetti, è l’amica di una vita di Filippo Timi: i due hanno festeggiat­o 25 anni di amicizia con la tournée «Promenade de Santé»
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Da piccola Lucia Mascino bambina al Conero

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