Biden alla prova del fuoco
Le guerre culturali dividono un’America che non sa più quale sia la sua «vera» storia
Nell’estate del 1972, mentre Joe Biden alla soglia dei 30 anni sconfiggeva a sorpresa in Delaware il popolarissimo senatore repubblicano Caleb Boggs, Massimo Gaggi, liceale italiano, si trovava in Virginia, ospite di un professore e volontario del Partito democratico che lo portò con sé nei ghetti neri dove convinceva la gente a votare durante la campagna per la Casa Bianca di George McGovern. «Tornai dagli Stati Uniti entusiasta, convinto di aver assistito a uno spicchio di storia: la costruzione della campagna con la quale il senatore del South Dakota e alfiere di una sinistra estremamente progressista… avrebbe sconfitto l’arcigno e detestato Richard Nixon». E invece McGovern straperse, perfino nel suo Stato.
«Per me fu una lezione di pragmatismo politico indelebile — scrive Gaggi, già inviato e vicedirettore, ora editorialista del «Corriere della Sera», nel suo nuovo libro La scommessa Biden (Laterza) —. Ma lo choc fu forte anche per il Partito democratico, che non si affiderà mai più a un candidato così spostato a sinistra. Fino al 2020, quando Biden presenta coi toni rassicuranti del vecchio patriarca centrista, un programma molto spostato a sinistra rispetto alla linea seguita negli ultimi trent’anni dal partito dei Clinton e di Obama».
Cinquant’anni dopo McGovern, la scommessa che dà il titolo al saggio riguarda molto di più di un’elezione. Biden è «diventato una sorta di ultima spiaggia della democrazia» e le sue difficoltà sono intrecciate al deterioramento delle istituzioni in «un Paese che scivola da decenni sul piano inclinato dell’involuzione del suo sistema politico e del modello sociale», come scriveva Gaggi nel suo libro precedente Crack America (Solferino, 2020).
L’America gendarme del mondo non esiste più, anche se resta il Paese guida dell’Occidente, ma è minata da due crisi interne alle quali Biden «deve dedicare gran parte dei suoi sforzi se vuole salvare la democrazia americana»: «la polarizzazione politica estrema arrivata al punto di avere poco meno della metà dell’elettorato che lo considera un presidente illegittimo»; e la crisi «economica e amministrativa di un Paese impoverito con un ceto medio alle corde, infrastrutture fatiscenti e una macchina amministrativa estremamente deteriorata che provoca gravissimi malfunzionamenti in aree cruciali come la sanità... o la stessa presenza in Afghanistan».
La novità storica di questa presidenza è che Biden si è convinto che «sono maturate le condizioni per traghettare gli Stati Uniti fuori dall’era reaganiana che per ben quarant’anni, l’arco di due generazioni, ha imposto con le sue politiche radicalmente neoliberali il mercatismo assoluto in un clima di fastidio o addirittura disprezzo per ciò che è gestito dal settore pubblico», spiega Gaggi, con «un programma di rilancio dell’industria, risanamento ambientale, protezione sociale e rivalutazione del ceto medio forse troppo oneroso, con qualche soluzione semplicistica e qualche idea un po’ datata… ma potenzialmente efficace per scuotere un Paese che vive da tempo un lento declino».
Paradossalmente gli iniziali successi, a partire dal passaggio del pacchetto da 1.900 miliardi di dollari per contrastare gli effetti del Covid sull’economia, che è l’embrione di una nuova politica «più europea» di sostegni alle famiglie, sono stati possibili anche grazie a Trump il quale, ignorando i vincoli di bilancio e spendendo a piene mani, ha «spazzato via l’ideologia repubblicana basata sul rigore fiscale, lasciando, almeno per un po’, disarmati i falchi dell’austerity». Ma il clima che ha reso possibile il varo di interventi di enormi dimensioni è durato poco. Dalla scorsa estate Biden deve fare i conti non solo con i repubblicani, ma anche con i due senatori democratici Joe Manchin e Kyrsten Sinema: data l’esigua maggioranza di cui gode il partito, la loro opposizione è sufficiente a frenare il cammino del suo programma di riforme, dal piano sociale e ambientale alla legge sul voto.
La scommessa di ridare un’identità alla sinistra si gioca
Polarizzazione Quasi metà degli elettori ritiene che l’inquilino della Casa Bianca sia un leader illegittimo
nel bel mezzo di una crisi della democrazia che non è solo fenomeno politico, ma culturale. È venuto meno il consenso sulle «idee liberaldemocratiche che sono state l’infrastruttura dello sviluppo dell’Occidente nei 75 anni del Dopoguerra», scrive Gaggi: non solo perché un Partito repubblicano «trumpizzato» ha sposato «fatti alternativi», «cancella» chi non si conforma e cerca di cambiare le regole persino su come verranno contati i voti; ma anche perché c’è una giovane sinistra radicale, convinta che «la democrazia liberale sia inefficace se non addirittura un paravento per perpetuare ingiustizie e diseguaglianze», che tende a «mettere fuori gioco chi non si adegua a nuovi codici etici su questioni razziali, sessuali, di identità sociale» (fenomeni denominati cancel culture e woke culture).
Non c’è consenso sulla «vera» storia dell’America e su come raccontarla a scuola; nel giornalismo c’è chi ritiene preferibile all’oggettività un approccio militante nell’esposizione dei fatti. La destra strumentalizza questi dibattiti per diffondere la paura che l’«America bianca» possa vedere la sua storia negata e riscritta, mentre a sinistra tanti temono che il Partito democratico si stia impelagando in guerre culturali lontane dalle priorità della gente.
Un anno dopo l’insediamento, la popolarità di Biden è ai minimi, la pandemia frena la ripresa, l’inflazione erode il potere d’acquisto, la Corte Suprema boccia il suo obbligo vaccinale. Sarà un presidente che, sottovalutato come Franklin D. Roosevelt e Lyndon Johnson, farà emergere dalla crisi la spinta a cambiare il Paese? Oppure, col «nuovo uragano Trump all’orizzonte», la sua presidenza sarà solo «la calma (per modo di dire) fra due tempeste»? Prepariamoci ad assistere a questo spicchio di storia.