L’icona di Dante non solo italiana ma universale
Approfondire il modo in cui Dante è stato celebrato dal XVIII secolo ai nostri giorni, scrive lo storico Fulvio Conti nel saggio Il Sommo italiano (Carocci, pagine 242, 18), permette di «rileggere alcuni snodi e passaggi della storia politica italiana».
In epoca romantica e risorgimentale Alighieri divenne non solo il simbolo dell’identità italiana, innanzitutto sul piano linguistico e letterario, ma anche «il poeta profeta, colui che nella Commedia aveva vaticinato la nascita stessa della nazione». E spesso la sua opera, critica verso i vizi della Chiesa di Roma, era letta in senso anticlericale da chi si batteva contro lo Stato pontificio e il temporalismo cattolico.
L’avvento al potere del fascismo cambiò questa impostazione. In primo luogo il movimento di Mussolini elevò Dante a proprio precursore, tanto da organizzare nel 1921 una marcia di camicie nere su Ravenna voluta dal ras emiliano Italo Balbo per il seicentesimo anniversario della morte del poeta. E poi, in fase di regime consolidato, ne fece l’«emblema principe della svolta conciliatorista» sancita dai Patti lateranensi nel 1929.
Bisogna quindi aspettare la Repubblica per assistere a una «definitiva valorizzazione dei contenuti universali» dell’opera poetica dantesca, prima celebrata soprattutto in chiave nazionale, se non nazionalista. Oggi, grazie a Vittorio Sermonti, a Roberto Benigni e non soltanto a loro, Alighieri è divenuto una «icona polisemica, trasversale rispetto alle generazioni e agli schieramenti politici». Un «punto di riferimento incredibilmente attrattivo — sottolinea giustamente Conti — perfino nell’era di Internet e della globalizzazione».