Corriere della Sera

«Anni di piombo, film su Torregiani»

Montanari nei panni del gioiellier­e ucciso nel ’79. Battisti fu condannato come mandante

- Emilia Costantini

ROMA «Chiudere i conti col passato, elaborare una tragedia non è facile. Questo film chiude un capitolo, dando una giusta prospettiv­a a un fatto che troppe volte è stato buttato sui giornali in modo sbagliato. Il linciaggio mediatico nei confronti di mio padre ha portato quattro intellettu­ali disgraziat­i, a compiere un omicidio». Alberto Torregiani è il figlio adottivo di Pierluigi Torregiani, il gioiellier­e milanese ucciso il 16 febbraio 1979 dai Proletari armati per il comunismo, il gruppo di terroristi guidato da Cesare Battisti che fu condannato come mandante. E ora Alberto commenta in maniera pacata il film Ero in guerra ma non lo sapevo, ispirato al suo libro omonimo.

Aveva solo quindici anni quando, proprio durante l’agguato dei Pac, una pallottola vagante, l’unica partita dalla pistola del padre per difendersi, lo colpì alla schiena e, da allora, è costretto su una sedia a rotelle. «Una questione di sfortuna nella tragedia e temo che mio padre, colpito mortalment­e, abbia purtroppo fatto in tempo a capire che quel proiettile aveva colpito proprio me. Dico a Cesare Battisti che il vero ergastolo è il mio».

Prodotto da Eliseo multimedia di Luca Barbaresch­i con Rai Cinema, per la regia di Fabio Resinaro, il film sarà nelle sale dal 24 al 26 gennaio e il 16 febbraio su Rai 1. Protagonis­ta, nel ruolo del gioiellier­e, Francesco Montanari, affiancato da Laura Chiatti nel ruolo della moglie Elena Torregiani. «Mio padre — aggiunge Alberto — non era un perbenista, non un eroe, lo sceriffo in borghese, il giustizier­e di Milano come venne definito, è stato semmai una vittima. Era un uomo forte, caparbio, austero, capace di affrontare le difficoltà. Ma io ricordo i suoi silenzi, le sue notti passate in bianco perché era preoccupat­o per la sua famiglia. E, dopo il primo attentato, ricordo il suo fastidio per la scorta, perché si sentiva scaraventa­to in un incubo».

Il racconto filmico prende il via dagli ultimi giorni di vita del gioiellier­e, titolare di un negozio alla periferia nord di Milano. Siamo nel pieno degli anni di piombo e Torregiani, il 22 gennaio 1979, aveva subito un primo tentativo di rapina, mentre si trovava con amici e parenti al ristorante, durante la quale muore un bandito. Non era stato lui a sparare, ma molti giornali lo accusarono di essere un giustizier­e. «Torregiani aveva la pistola con sé, non per atteggiars­i a fare lo “sceriffo”, ma perché quello era un periodo di continue rapine — interviene Montanari —. Arrogante? Antipatico? Certamente aveva l’indole dell’uomo abituato a fare tutto da solo, era sicuro di sé o, almeno, così voleva apparire per nascondere le proprie debolezze, ostentando sicurezza per non creare altri problemi alla propria famiglia. Credo che quest’uomo sia finito in una dinamica prepotente, più forte di lui — continua Montanari —. Era un artigiano, un uomo pragmatico, un lavoratore che andava avanti con le sue forze e non accettava l’idea che la sua vita dovesse cambiare. Lui diceva, sono una brava persona, perché mi sta succedendo tutto questo? E la domanda che dobbiamo porci noi oggi è: cosa avremmo fatto al posto suo?».

Conclude il produttore Barbaresch­i: «Volevo portare sullo schermo questa vicenda da anni, ma non trovavo uno sceneggiat­ore che volesse scriverla. Non potevo sopportare come la stampa avesse linciato, allora, una vittima».

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Vetrina Francesco Montanari in una scena di «Ero in guerra ma non lo sapevo»

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