È la fine dei negozi? Veronesi risponde no
Il presidente del gruppo Calzedonia: «La mia strategia è aprire spazi che funzionano, anche di prossimità». E archivia il 2021 con 2,4 miliardi
«La mia strategia? Aprire negozi che funzionano. Con la pandemia è tutto un disastro. Ogni Paese ha le sue difficoltà, le fabbriche che devono adattarsi… Ogni tanto chiudono i negozi: una volta in Russia, una volta in Germania. Serve grande flessibilità, riorganizzare i flussi di prodotti, le collezioni, le campagne pubblicitarie. Però questo è anche il nostro lavoro...».
Sandro Veronesi, con schiettezza e pragmatismo consueti, guarda avanti senza esitazione. Del resto è l’uomo che ha portato il Gruppo Calzedonia, fondato a Verona nel 1986 (e di cui oggi fanno parte anche i brand Intimissimi, Intimissimi uomo, Tezenis, Atelier Emé, Falconeri e Signor vino) ha 40 mila dipendenti nel mondo con un fatturato del 2021 di 2.4 miliardi di euro (il web triplicato, vale un 7%).
«Siamo tornati più o meno ai dati del 2019 — aggiunge subito —. E questo è un buon risultato. Siamo presenti in 54 Paesi tra negozi e fabbriche».
È arrivato al Museo del Novecento in occasione dell’esposizione degli abiti da sposa Re-Love di Atelier Emé, vestiti speciali creati recuperando i campionari d’archivoglia vio. «Chiaramente il brand è stato il più colpito dal Covid19 perché non ci si poteva sposare e quindi i matrimoni sono stati rinviati di un anno e oltre. Alcune coppie sono state costrette a organizzarli in tempi molto stretti senza genitori e senza l’abito; e quindi siamo dovuti andare in apnea per tutto il 2020 e parte del 2021. Fortunatamente ora stiamo riscontrando che la di sposarsi è tornata anche più forte. È una rivincita su tutto ciò che non era più permesso: viaggiare, organizzare belle feste. E quindi ora stiamo rilanciando il marchio. Nel frattempo abbiamo aperto più punti vendita, siamo a 47, tutti in Italia».
Veronesi scommette sui negozi di prossimità «perché l’Italia è anche un Paese fatto da tanti piccoli centri, tante città». L’abito da sposa è difficile da vendere online, ragiona il presidente. Il web però ha cambiato lo shopping. «Le ragazze arrivano informate. Lo dico ai miei rivenditori: se in negozio non siamo capaci di fornire una consulenza, di instaurare un rapporto umano, allora la gente compra online. Se invece trova una sartoria a un prezzo accessibile… Per Atelier Emé significa qualità di tessuti e servizio personalizzato, quelli che vedi in negozio sono i campionari, ma poi l’abito viene fatto solo per te. Il nostro obiettivo e fornire un servizio elevato. Bisogna saper raccontare».
Come è cambiato il fast fashion? «Io non condivido questa parola che viene usata da chi la disprezza. Dentro il fast fashion c’è di tutto: aziende che fanno cose buone e altre meno». Il mercato italiano si è ripreso? «Non particolarmente. Durante la pandemia si è assistito a un rafforzamento dei marchi più forti. I clienti si muovono solo a colpo sicuro». Che cosa cercano? «Comodità, stile e prodotti che durino nel tempo, materiali il più possibile naturali e sostenibili,tracciabili. Il brand del gruppo che funziona meglio è Falconeri: le fibre nobili a prezzo democratico — dice mostrando il suo dolcevita in cashmere e seta blu —. Anche l’abito da sposa oggi deve essere confortevole, mai troppo pesante».
I matrimoni civili hanno raggiunto quelli religiosi, ricorda l’imprenditore, ma è tornato il desiderio di organizzare cerimonie importanti: «Ci stiamo americanizzando, non ci sono più soltanto gli abiti della sposa per i diversi momenti, altrettanto importanti sono gli abiti delle damigelle, delle sorelle, di mamma e zie».
Intanto nella nuova sede di Castiglione dello Stiviere (Mantova) dove lavorano 130 persone, le première preparano gli abiti per le orchestrali di Sanremo. «Ci siamo trasferiti durante la pandemia, ci crediamo e continuiamo a investire».