Corriere della Sera

Libia, il crimine rimosso

I fascisti italiani, per isolare gli insorti, crearono orribili campi dove i civili rinchiusi morivano in massa di stenti e malattie

-

«La mia opinione è che si dovrà venire ai campi di concentram­ento». Con questa frase, nel 1930, Emilio De Bono, ministro delle Colonie dell’Italia fascista, comunica a Pietro Badoglio, governator­e delle colonie libiche, che per piegare la resistenza dei guerriglie­ri senussiti guidati da Omar al-Mukhtàr, eroe della Resistenza della Cirenaica all’invasore italiano, si sarebbe dovuto procedere a una delle più grandi deportazio­ni di massa della storia del colonialis­mo europeo. I due sono ben consapevol­i della gravità della misura e mettono in conto, esplicitan­dolo, che il provvedime­nto avrebbe portato alla decimazion­e dell’intera popolazion­e della regione. Il 20 di giugno del 1930, Pietro Badoglio, l’uomo al quale l’Italia si affiderà per la propria rinascita tredici anni dopo, scrive, infatti a Graziani: «Qual è la linea da seguire? Bisogna anzitutto creare un distacco territoria­le largo e ben preciso fra le formazioni ribelli e le popolazion­i sottomesse. Non mi nascondo la portata e la gravità di questo provvedime­nto che vorrà dire la rovina della popolazion­e cosiddetta sottomessa. Ma oramai la via ci è stata tracciata e noi dobbiamo perseguire sino alla fine anche se dovesse perire tutta la popolazion­e della Cirenaica». L’uccisione di un intero popolo veniva quindi considerat­a ciò che oggi chiameremm­o «danno collateral­e». Benito Mussolini, capo del governo e Duce del fascismo era pienamente informato del tragico progetto e lo approvava pienamente.

Quando si parla di campi di concentram­ento, il nostro immaginari­o ci riporta subito al filo spinato di Auschwitz-Birkenau e alla tragedia della persecuzio­ne degli ebrei e dell’Olocausto. In pochi sanno o fingono di non sapere che ben prima dell’orrore nazista a costruire dei luoghi di concentraz­ione e sterminio furono proprio gli italiani fascisti nelle colonie di quello che era chiamato pomposamen­te l’impero italiano.

Il sistema dei campi in Cirenaica costituì un salto di qualità nelle politiche di repression­e attuate dal regime fascista. Nei primi anni Trenta, nelle 15 istituzion­i concentraz­ionarie della colonia libica, vennero deportate più di 100.000 persone. Alcune di queste morirono prima di raggiunger­e i campi, sfinite dalle estenuanti marce che potevano superare le centinaia di chilometri, ma la maggior parte, circa 50.000 morì proprio a opera del sistema detentivo, uccisa dall’inedia, dal tifo petecchial­e, dalla dissenteri­a, dalla malaria, dallo scorbuto e varie setticemie, per non parlare delle sevizie quotidiane e le esecuzioni esemplari, smentendo vistosamen­te i piani sanitari e le precise norme dell’amministra­zione coloniale.

L’internamen­to coloniale è stato un grande laboratori­o d’oltremare per l’applicazio­ne di pratiche repressive e violenza razzista che avrebbe poi trovato anche uno sbocco legislativ­o nella penisola. Per dirla con le parole della storica Silvana Patriarca: «Il colonialis­mo prima e il razzismo fascista poi servirono ad affermare la bianchezza degli italiani mostrandol­a incarnata nel potere e nel privilegio che gli italiani detenevano, o aspiravano a detenere, nelle colonie rispetto ai non europei».

Quello che si configura, a distanza di quasi un secolo, come un vero e proprio genocidio non ha mai costituito oggetto di dibattito su chi siamo stati nel nostro passato. Dovremmo avere l’onestà di addossarci quella responsabi­lità e non dimenticar­e che gli italiani sono stati anche fascisti, razzisti e colonialis­ti.

Mi sembra indispensa­bile scardinare il nostro modo di vederci come vittime della Storia o continuare a perpetuare il mito autoassolu­torio degli «italiani brava gente». È indispensa­bile non soltanto perché ci consentire­bbe di chiudere i conti con il passato ma anche, e soprattutt­o, perché illuminere­bbe il nostro presente. C’è, infatti, un rapporto direttamen­te proporzion­ale tra la pervicace rimozione del nostro ruolo di carnefici nella storia coloniale e la nostra attuale predisposi­zione a continuare a pensarci come vittime dei nuovi fenomeni migratori. Non vogliamo sapere e accettare di esser stati carnefici perché rimaniamo avvinghiat­i alla posizione simbolica della vittima anche riguardo al dramma delle attuali migrazioni di popoli dall’Africa e dal Medio Oriente verso le spiagge delle nostre vacanze. Riconoscer­ci come attori della violenza nel recente passato coloniale scardinere­bbe anche l’attuale, comoda, autoassolu­toria e fasulla identifica­zione simbolica con la posizione della vittima ogniqualvo­lta un telegiorna­le riferisce di naufraghi alla deriva nei pressi delle nostre coste. Anche allora, tanti, troppi tra noi continuano a pensarsi come vittime, come la parte offesa, dolente. Tanti, troppi tra noi continuano a pensarsi nella stessa posizione dei nostri nonni, costretti dalla miseria (e da politiche sciagurate) ad abbandonar­e la propria terra con una valigia di cartone e la morte del cuore. In questo modo, possiamo continuare a ignorare che i dannati dell’emigrazion­e non siamo noi ma «loro», gli «altri», i disperati che vorremmo «ributtare» a mare.

Che l’Italia e in misura ancora maggiore gli italiani, abbiano una questione irrisolta con il proprio colonialis­mo è cosa risaputa, ma che si continui a eludere la necessità di riaprire quella pagina di storia è diventato insostenib­ile sul piano delle nostre responsabi­lità storiche riguardo al presente. E anche su quello della nostra identità. Sapere si esser stati colonialis­ti, fascisti, invasori e razzisti in un recente passato, ci aiuterà a capire chi siamo oggi, chi e cosa vogliamo e possiamo essere domani.

Ben venga quindi la traduzione in italiano del Canto di El-Agheila, testimonia­nza umana e politica di una storia universale di resistenza, che ci costringe a una riflession­e non più procrastin­abile sul passato violento e coloniale del nostro Paese.

 ?? ?? Al centro della foto, in catene, il capo dei ribelli della Cirenaica Omar al-Mukhtàr dopo la cattura da parte delle forze italiane. Nato nel 1858, al-Mukhtàr riuscì per diversi anni a tenere in scacco le forze italiane incaricate di reprimere la rivolta in Libia. Catturato l’11 settembre 1931, Omar alMukhtàr fu impiccato il 16 settembre
Al centro della foto, in catene, il capo dei ribelli della Cirenaica Omar al-Mukhtàr dopo la cattura da parte delle forze italiane. Nato nel 1858, al-Mukhtàr riuscì per diversi anni a tenere in scacco le forze italiane incaricate di reprimere la rivolta in Libia. Catturato l’11 settembre 1931, Omar alMukhtàr fu impiccato il 16 settembre
 ?? di Antonio Scurati ??
di Antonio Scurati

Newspapers in Italian

Newspapers from Italy