Il luna park dei misteri
L’intervista Il regista, Oscar per «La forma dell’acqua», torna con il thriller psicologico «La fiera delle illusioni» Del Toro: «Il mio film è anche un viaggio nella mente Io credo nei fantasmi e ho esperienza di cose strane»
C’è sempre un fantasma che bussa alla porta proibita di Guillermo del Toro, il regista messicano creatore di mostri che unisce fantasia gotica e poetica umanissima. Aspettando il suo Pinocchio, e dopo La forma dell’acqua che gli ha valso due Oscar e il Leone d’oro a Venezia, eccolo su zoom con occhialini tondi e bonomia apparente in un nuovo gioco di prestigio, dove racconta «un uomo che vende la sua anima, una nullità, un imbroglione che truffa l’alta società di New York degli Anni 30». Bradley Cooper (è in una scena di nudo che ha fatto scalpore sul web), pratica l’arte di leggere la mente, e pianifica di imbrogliare un pericoloso magnate. La Fiera delle Illusioni – Nightmare Alley, esce il 27, distribuito dalla Disney. Cast stellare: accanto a Cooper, Cate Blanchett, Willem Dafoe, Richard Jenkins, Rooney Mara.
Del Toro, stavolta che tavolozza ha scelto?
«C’è l’ombra della Grande Depressione sullo sfondo dei luna park negli aspetti oscuri e sconosciuti, i fenomeni da baraccone, un microcosmo in cui incontri gente costretta a lasciarsi alle spalle un passato tormentato; ci sono terrore e potere, seduzione e tradimento, corruzione e lussuria, crimini e castighi. Ho cercato di evitare i cliché dei noir».
Ma lei crede nello spiritualismo?
«Lo pratico e mi piace, anche se mi fa paura. Non ha a che fare con la magia ma con la psicologia, con l’entrare in contatto con noi stessi. Credo nella magia come percezione del mondo che trasforma la mostra mente. Ma come per ogni messicano, mi sono accadute storie di fantasmi, ho esperienze di cose strane nella mia testa».
La storia è tratta...
«Dal romanzo di William Lindsay Gresham (se ne fece già un film, tanto tempo fa, con Tyrone Power). L’ho letto nel 1993 e rimasi impressionato dalla libertà dello stile narrativo. Gresham era davvero entrato nella mente dei suoi personaggi. Fui colpito da certi loro aspetti brutali e sordidi, allo stesso tempo era un ritratto profondamente umano. Il libro era difficile da trovare, c’erano conflitti legali. Parla di cose che riflettono il mondo che viviamo».
Le manipolazioni del film ci portano al veleno delle fake news di oggi.
«Il protagonista è un truffatore vagabondo che si trasforma in un affascinante manipolatore. Le fake news riguardano la sfera personale, più che la politica. Viviamo tempi difficili con noi stessi, preferiamo il comfort. Vincono la fama, i followers, vince l’effimero. E’ una sorta di cultura gladiatoria, stiamo vivendo tutti in un circo dell’antica Roma. L’esistenza è divisa in bianco e nero, a proposito di tavolozza, si sono persi gli altri colori, una dimensione infantile, come possiamo cominciare una conversazione tra adulti?».
Questa semplificazione la ritroviamo nel film?
«La ritroviamo in una battuta: ho paura ogni giorno della mia vita. La soluzione sarebbe semplice e difficile allo stesso tempo, abbracciare la compassione e la capacità di accettare il mondo nella sua complessità».
C’è il sogno americano?
«Sì, nel suo lato oscuro. Anzi, se devo dirla tutta per me è un incubo, l’idea di successo non coincide con la verità. Con i suoi inganni. E’ molto più difficile riprendersi dal successo che dai fallimento. Il fallimento è una lezione di vita che ti fa crescere. Il successo è l’insoddisfazione, viene scambiato con la necessità di avere tutto. Il successo per me è quando dici: quando è troppo è troppo».
Cate Blanchett qui ha un fascino maledetto.
«E’ l’angelo vendicatore, una sfinge; è la misteriosa psichiatra (ce n’erano tante all’epoca, ma, sotto il tacco di Freud, non erano riconosciute) che ha il coraggio di confrontarsi col truffatore, con la verità del suo vero io».
La strada di Fellini, la brutalità del saltimbanco Zampanò: ci ha pensato?
«La strada si poteva svolgere nel mio Messico. Il luna park itinerante con i suoi giostrai e creature deformi nei campi fangosi era l’unico intrattenimento per le masse. Sono rimasto più influenzato da Ossessione di Visconti e Il grido di Antonioni, perché il mio film (che non ha nulla di manieristico) ha più a che fare con un realismo crudo. Fellini è uno dei miei registi preferiti, uno dei tre più grandi al mondo insieme con Buñuel e Hitchcock, ha influenzato il mio modo di avvicinarmi al cinema, ma in questo caso non c’entra così tanto».
Quando dice che questa storia si poteva svolgere nel suo paese...
Oggi viviamo in una specie di grande circo tra fake news e followers: una cultura gladiatoria
«Messico e Italia hanno in comune la capacità di coniugare il sublime col terribile, la brutalità con la bellezza. Che poi sono le due dimensioni della vita: l’essere umano è affascinato dall’horror e dalla bellezza».