Sangue, statue e palloncini Forme di un mondo ferito
EBanksy? Dinanzi al trauma dell’Ucraina, lo street artist che ha fatto dell’anonimato il suo capolavoro resta in silenzio. Sul suo profilo Instagram, il misterioso inviato speciale nei lati più perturbanti della nostra epoca finora non ha postato nessun commento pittorico della tragedia ucraina. Non una forma di diserzione, ma la presa d’atto della propria impotenza. Meglio sigillare le labbra al cospetto del Male, che si sottrae a ogni resoconto visivo immediato.
Alcuni artisti, invece, stanno seguendo un’altra strada. Di diverse culture, provenienze e generazioni, servendosi di linguaggi eterogenei (pittura, performance, video), queste voci sembrano oscillare tra inclinazioni testimoniali, slancio surrealista e impeto espressionista. In videoinstallazioni di straordinaria immediatezza, Yoko Ono e Jenny Holzer hanno proiettato su schermi di grande formato efficaci appelli alla pace. Frasi semplici e dirette, che illuminano la notte di alcune città del mondo: «There is Evidence of Great Violence Today» (Holzer) e «Imagine Peace» (Ono).
Favole al contrario
Visionario e onirico l’approccio di altri artisti, autori di opere nelle quali significativi passaggi della nostra più bruciante attualità vengono riletti sulla soglia tra documentarismo giornalistico e gusto per lo straniamento: momenti del conflitto russo-ucraino sono guardati con uno sguardo obliquo, che predilige il sarcasmo e lambisce i territori dello humour nero. Come favole al contrario. Ecco, allora, Mark Kelner, che ha legato palloncini gialli e blu a una statua di Alexander Pushkin a Washington. Ed ecco i murales che stanno affiorando un po’ ovunque nel mondo, realizzati da writer che reinventano attori e simboli di questi giorni: potente l’intervento del bulgaro Stanislav Beloski, una moderna Pietà nella quale appare Putin che sorregge il suo stesso corpo. Ed ecco JR, regista di una spettacolare installazione: in una piazza di Leopoli ha srotolato una gigantografia in cui vediamo Valeriia, una bambina ucraina accolta in Polonia insieme con sua madre. Ed ecco la star degli Nft, Beeple, il quale ogni giorno sta pubblicando su Instagram fotogrammi di un allucinato fantasy: bandiere ucraine che sventolano su paesaggi di rovine; edifici poggiati su fondamenta fatte di teschi; Putin trasformato in un gigantesco bambino dalle mani insanguinate, ai cui piedi si trovano militari in attesa di eseguire ordini; ancora Putin in una pozza di sangue.
Museo della guerra
Espressionista lo sguardo di Sana Shahmuradova, che ha disegnato corpi aggrovigliati su ritagli di carta da parati; quello di Iryna Babenko, le cui illustrazioni raccontano storie di resilienza; quello di Yuliana, che mostra il suo corpo avvolto in una bandiera ucraina spezzata da crepe; e quello dei tanti pittori pacifisti radunati nella pagina Instagram «Putinpeace».
Proposte diverse che potremmo raccogliere in una sorta di Museo della Guerra non troppo diverso da quello raccontato da Claudio Magris in Non luogo a procedere. Una pinacoteca fatta di immagini estratte da quel magazzino degli orrori narrato epicamente da Svetlana Aleksevic. Ritratti del tramonto dell’Occidente cui, impotenti, stiamo assistendo. Drammaturgie di una terra deserta, ferita a morte. Scorci di un allarme che proietta su di noi ombre minacciose.
Si tratta di opere che evocano un Medioevo riaffiorato nel cuore della modernità più avanzata. Fotogrammi di un’apocalisse non trascendente né mistica, ma immanente, insediatasi bruscamente nella nostra quotidianità e disseminata nel flusso dei media. È accanto a noi. La sentiamo respirare. È una fine che non finisce mai.
Pur con accenti diversi, gli artisti del nostro Museo della Guerra si fanno involontari ed eccentrici cronisti di un atroce finale di partita. Città sventrate. Vite spezzate. Morte della speranza. Naufragio collettivo. Sembra quasi di sentire il pianto dell’umanità. «L’apocalisse (...) è il nostro presente, una delle sue possibilità che ci spia dal suo nascondiglio, che ci osserva, che è qui», ha scritto Milan Kundera.