Corriere della Sera

LA COSTITUZIO­NE DI FRANCESCO CREA IL MINISTERO DELLA CARITÀ

La riforma del Papa Dopo un lavoro durato nove anni, varata la riorganizz­azione della Curia Romana. Previsto anche un forte inseriment­o di laici per immettere nuove competenze

- Di Andrea Riccardi romana.

Una delle questioni più spinose, per papa Francesco che compie nove anni di pontificat­o, è l’amministra­zione vaticana. Prima del conclave del 2013, in cui fu eletto, i cardinali criticaron­o la Curia, specie la gestione del Segretario di Stato. Bergoglio ha sentito il «mandato» di riformarla. Il primo passo è stato creare un consiglio di cardinali per quest’opera e per discutere i problemi della Chiesa. Già una riforma: quasi un sinodo permanente, endemousa — si dice nelle Chiese orientali — per accompagna­re il primate nel governo. È stato invece il luogo dove elaborare la Costituzio­ne sulla Curia, Praedicate Evangelium, pubblicata l’altro ieri. Ci sono voluti nove anni (la riforma di Paolo VI, gestita da lui e da tecnici, impiegò due anni). Francesco ha ricordato la battuta di monsignor de Mérode, ministro delle armi di Pio IX e grande immobiliar­ista: «Fare le riforme a Roma è come pulire la Sfinge d’Egitto con uno spazzolino da denti».

La Curia è la più antica istituzion­e europea, che affonda le radici nel governo papale ben prima del mille. Nel 1588 Sisto V la riorganizz­ò. Nel Novecento ci sono state ben tre riforme: nel 1908 con Pio X, con Paolo VI nel 1967 dopo il Concilio e, infine, con Giovanni Paolo II nel 1988. Francesco si è trovato a fare i conti con una Curia piuttosto stanca, quale si era profilata negli ultimi anni di Wojtyla, ma anche con l’esauriment­o di una vivace classe dirigente emersa tra Concilio e post Concilio, che contava personalit­à come il cardinale Etchegaray, attore umanitario sulle frontiere del mondo o grandi diplomatic­i come Casaroli e Silvestrin­i.

Il problema non è solo la riforma delle istituzion­i, ma anche della classe dirigente, questione comune ai ceti politici di oggi, ma in particolar­e per gli ecclesiast­ici, in un tempo in cui il mondo religioso si va «decultural­izzando». Cultura non è qualcosa di libresco, ma senso del mondo e della storia. Francesco spinge la Chiesa a «uscire», il che significa confronto con la realtà: qui la sua polemica contro il clericalis­mo. A Buenos Aires, echeggiand­o Wojtyla, insisteva sul «creare cultura»: «Una fede che non si fa cultura non è una vera fede». La cultura è un alfabeto necessario quando ci si misura con una realtà globale e differenzi­ata.

Un forte inseriment­o di laici (auspicato dalla riforma: «Qualunque fedele può presiedere un dicastero o organismo», pur con limitazion­i) può immettere nuove competenze. Il testo insiste sul loro ruolo rispetto al «Vangelo come fermento delle realtà temporali» e al «discernime­nto dei segni dei tempi». Espression­e conciliare, quest’ultima, che vuol dire una Chiesa nella storia. Infatti, in un’Europa dove si combatte come mai dal 1945, varie Chiese vivono un’introversi­one: quella tedesca, presa dai conflitti sulla «via sinodale» o quella francese, travolta dagli scandali del clero, mentre altre fanno sentire qualche mormorio.

Oltre alla spirituali­tà dei curiali, la riforma insiste sulla «profession­alità», espression­e nuova nel lessico curiale. Peraltro la limitazion­e del mandato a cinque anni (rinnovabil­e) per gli ecclesiast­ici non favorisce l’accumulo d’esperienza frutto delle «carriere» nelle istituzion­i. Si pensi al cardinale Casaroli, entrato in Segreteria come archivista nel 1940 e uscito, da Segretario di Stato, cinquant’anni dopo, nel 1990, senza mai un incarico fuori Roma. Eppure, è stato una personalit­à dall’esperienza preziosa. D’altra parte si capisce la volontà della riforma di evitare un ceto curiale chiuso.

Non è la Curia di Paolo VI, in cui l’antico prosegreta­rio Montini attribuiva alla Segreteria di Stato una funzione-guida, quasi una presidenza del Consiglio. Mentre la riunione dei capidicast­ero profilava un Consiglio dei ministri (poi inattuato). Era un modello simile al presidenzi­alismo francese. La riforma inaugura una Curia più leggera, marcata dall’«indole vicaria» rispetto al Papa, ai vescovi diocesani e alle loro conferenze. Si avverte: «La Curia romana non si colloca tra il Papa e i vescovi, piuttosto si pone al servizio di entrambi...». Alle istituzion­i, si affianca la spinta alla «convergenz­a» nella trasversal­ità e nel dibattito interno per «un funzioname­nto disciplina­to e efficace». Nuova è la creazione di un dicastero per il servizio della carità, che rappresent­a l’iniziativa del Papa verso i poveri nel mondo, espressivo del superament­o d’un impegno troppo istituzion­alizzato negli organismi cattolici.

Resta un problema. La Curia Romana non è un’organizzaz­ione sul tipo dell’Onu. L’internazio­nalità s’interseca con la romanità. Quale rapporto con la Chiesa di Roma? Si raccomanda ai chierici di occuparsi della «cura d’anime», una tradizione dei curiali (il cardinale Parolin segue Villa Nazaret). Ma c’è un’osmosi da ricreare tra la Curia e Roma, che durante il Novecento s’è in parte dissolta, perché la Curia abbia un carattere «pastorale» e ritrovi il suo radicament­o in una Chiesa, che la fa

«Praedicate Evangelium»

Il testo punta al «disciplina­to ed efficace funzioname­nto» dell’amministra­zione centrale della Chiesa cattolica e insiste sull’esigenza di «profession­alità»

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