Boris ucciso da una granata Si era salvato da quattro lager nazisti
Romanchenko aveva 96 anni ed era stato deportato come prigioniero politico: è bruciato nel letto di casa La nipote: non sono riuscita a convincerlo a fuggire
Boris Romanchenko è morto venerdì nel suo letto a Saltivka, quartiere residenziale a Nordest di Kharkiv. Una granata ha colpito il suo appartamento, che ha preso fuoco. È bruciato vivo, di lui sono rimaste le ossa. Sua nipote Yulia vorrebbe dargli degna sepoltura, ma non ha le 25 mila grivnie, 770 euro circa, che gli chiedono i servizi funebri privati per prendersene carico. Il Comune ha detto che se ne occuperà, ma Yulia deve aspettare qualche mese: adesso c’è la guerra.
La guerra c’era anche quando Boris era un ragazzo, aveva sedici anni e fu deportato a Dortmund ai lavori forzati: serviva manovalanza, e lui era un comunista sovietico giovane e forte, infatti nella sua «divisa» aveva il triangolo rosso che lo identificava come prigioniero politico.
Tentò di fuggire, ma fu catturato e trasferito nel campo di concentramento di Buchenwald. Fu tenuto prigioniero anche a Peenemünde, Mittelbau-Dora e BergenBelsen e costretto a costruire i razzi V2 dell’esercito nazista. Prima di tornare in Ucraina, dovette prestare servizio per molti anni nell’esercito sovietico di stanza nella Germania dell’Est.
Queste cose le sappiamo perché le ha ricordate la Fondazione per la Memoria dei Campi di Concentramento di Buchenwald e Mittelbau-Dora, annunciandone la morte. Sui suoi profili social ha pubblicato due foto di Boris: una con il «pigiama» a righe tristemente noto, all’ingresso del campo di Buchenwald; l’altra durante il giuramento che fece per i 70 anni dalla liberazione del campo, quando disse, in russo: «La costruzione di un nuovo mondo di pace e libertà è il nostro ideale». Con quello spirito era stato vicepresidente per l’Ucraina dell’International Committee Buchenwald Dora and Commandos.
Era nato il 20 gennaio 1926 a Bondari, vicino a Sumy, meno di duecento chilometri a Nord di Kharkiv. «Mi raccontava spesso della guerra alla quale era scampato. Aveva tenuto un diario, chissà se lo ritroveremo», ha spiegato la nipote Yulia alla stampa ucraina, ricordando lo spessore umano di quel nonno che era stato testimone degli orrori di Hitler. Fu lui a insegnarle a leggere e a scrivere. «Mi ha insegnato tutto, lo andavo a trovare sempre durante le vacanze. Abitava in quel palazzo da trent’anni, da solo. Ho provato a convincerlo a venire via, ma non ha voluto. Ormai era sordo e faceva fatica a camminare».
La «sua» guerra non l’aveva dimenticata. È sempre Yulia a parlare: «In quegli anni gli capitava di sognare anche solo una briciola di pane». Nella città di Weimar, otto chilometri dal campo di concentramento di Buchenwald, tre anni fa il volto buono di Boris Romanchenko ha fatto parte della mostra di ritratti dell’artista Thomas Müller «I testimoni», foto in formato gigante disseminate nella strada dalla Stazione al Bauhaus-Museum.
Andriy Yermak, il capo dell’Ufficio del presidente Volodymyr Zelensky, su Telegram ha commentato così la morte di Boris: «Questo è ciò che chiamano “operazione denazificazione”».