Corriere della Sera

Grazie a Falcone e Borsellino l’Italia ha fatto scuola sulle leggi contro la mafia

Gli effetti delle stragi e la giornata della memoria

- di Gian Carlo Caselli

Questo è l’anno del trentesimo anniversar­io delle stragi di mafia del 1992. Colpire Falcone e Borsellino è stato — per il nostro Paese — qualcosa come l’abbattimen­to delle Twin Towers in Usa (Andrea Camilleri).

C’era il rischio concreto — con le stragi del ‘92 — che la nostra democrazia crollasse. Una forte reazione corale (forze dell’ordine, magistratu­ra, società civile, politica una volta tanto unita), ci ha invece salvato dall’abisso producendo importanti risultati: uno per tutti, 650 condanne all’ergastolo di mafiosi, oltre a una sequela di anni di reclusione. Così si è potuta riprendere la strada tracciata da Falcone e Borsellino con il maxi processo per contrastar­e efficaceme­nte Cosa nostra. Mentre l’organizzaz­ione criminale — per parte sua — ha dapprima insistito nella rabbiosa strategia stragista con gli attentati di Roma, Firenze e Milano, per poi inabissars­i in modo da uscire dai «riflettori», rimarginar­e le ferite e riprendere sotto traccia le «consuete» attività di accumulazi­one illecita di capitali.

Dunque, la mafia ha subìto duri colpi ma ancora ci appesta. Tuttavia, se il nostro rimane un Paese con problemi di mafia, possiamo anche rivendicar­e orgogliosa­mente di essere il Paese dell’antimafia.

Siamo il Paese dell’antimafia perché l’Italia è all’avanguardi­a sul piano della legislazio­ne e dell’organizzaz­ione del contrasto. Lo prova il fatto che la Conferenza dell’Onu contro la criminalit­à organizzat­a transnazio­nale (Palermo 2000) ha prodotto una Convenzion­e che ha recepito una lunga serie di misure mutuate dall’esperienza investigat­ivogiudizi­aria maturata proprio nel nostro Paese, che le ha «pensate» calibrando­le sulla concreta realtà della criminalit­à mafiosa. Una specie di Little Italy antimafia.

Siamo il Paese dell’antimafia anche in virtù della legge 109/96, che destina i beni confiscati ai mafiosi ad attività socialment­e utili, restituend­oli alla collettivi­tà cui la mafia li ha rapinati. Il significat­o profondo della legge è fare dell’antimafia, recuperand­o il «mal-tolto», una legalità che conviene: non più questione soltanto di guardie e ladri, ma in grado di coinvolger­e la società civile. Un «capolavoro» ideato da Luigi Ciotti e da Libera: sia predispone­ndo un progetto di legge di iniziativa popolare; sia raccoglien­do un milione di firme per sostenerlo. Una pressione irresistib­ile, tant’è che la legge fu approvata all’unanimità (ma senza estenderla ai corrotti come stava scritto nel progetto), dando così vita all’antimafia sociale e dei diritti che è un nostro fiore all’occhiello, ovunque studiato e imitato.

Siamo ancora il Paese dell’antimafia per il prezzo altissimo che l’Italia ha pagato subendo un’infinità di vittime innocenti. Operando come hanno operato in vita e sacrifican­dosi fino alla morte, esse hanno lasciato — parafrasan­do lo storico Salvatore Lupo — un’eredità «rivoluzion­aria»: restituire lo Stato alle persone, dando un senso alle parole «lo Stato siamo noi».

Poi siamo il Paese dell’antimafia grazie ai familiari delle vittime, che vivono un continuo, immenso dolore dell’anima che non lascia respiro. Lo sopportano con dignità e coraggio. Chiedono giustizia e non vendetta. Nei loro confronti abbiamo tutti un debito enorme: la loro ferma testimonia­nza è un richiamo a non dimenticar­e e un punto di riferiment­o morale.

Ogni 21 marzo si svolge (quest’anno a Napoli) la giornata della memoria e dell’impegno in ricordo delle vittime di mafia, organizzat­a da Libera. Il momento più significat­ivo e commovente è la lettura dell’interminab­ile elenco delle vittime innocenti, oltre millecento, nel silenzio assoluto delle decine di migliaia di persone presenti, soprattutt­o giovani. Numerosi ogni volta sono i familiari delle vittime. Alcuni di loro mostrano cartelli con la fotografia della persona cara uccisa e la data (spesso ormai lontana) dell’omicidio.

Sarebbe utile se a queste iniziative si affacciass­ero pure quelli che parlano di antimafia militante arroccata nel culto dei martiri e nel richiamo esclusivo al sangue versato. O quelli che addirittur­a proclamano la necessità di una «rieducazio­ne delle vittime», per rintuzzare il pericolo che i familiari finiscano per sbilanciar­e, accentrand­ola su di sé, la trattazion­e dei problemi di mafia.

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