Corriere della Sera

«Per la prima volta aiuto i profughi, solo ora capisco»

- Matteo Nepi

Caffè, biscotti e telegiorna­le locale delle Marche: la mia colazione. Ancora addormenta­to e con il segno del cuscino sulla guancia guardo il primo servizio. Intervista­no una ragazza, bella, bionda con due occhi di ghiaccio. Sta raccontand­o gli orrori del suo Paese. A migliaia sono fuggiti in modo rocamboles­co prendendo una valigia al volo, stipati in pullman insieme ad altri disperati.

Lei ha preferito guidare l’auto, due giorni senza fermarsi dall’Ucraina a Civitanova Marche attraverso i confini della Slovacchia. Piange durante la videochiam­ata con l’amica rimasta a Kiev. Alla frase «Aiutateci, vi prego!», invece del biscotto butto giù un magone.

Il giorno dopo io e il mio magone andiamo a fare la spesa da donare ai rifugiati ucraini. Ho la lista dei prodotti richiesti. Con sicurezza metto nel carrello cibo in scatola, medicinali e omogeneizz­ati. Penso che è la prima volta che faccio qualcosa per chi soffre lontano da casa mia. Non lo feci per il popolo della Bosnia ed Erzegovina, della Siria, per i popoli dell’Africa e per tutti quelli falcidiati dalla follia umana.

Ma questa, mi dico, è la guerra della grande e potente Russia, quella che ci toglie il gas, che ci lascia al freddo, quella dei missili nucleari. Non è una delle solite guerre in corso da anni, davanti alle cui notizie, lo ammetto, ormai giro pagina. Eppure, devo iniziare a capirlo, tra guerre e guerrette non c’è differenza. Kalashniko­v, machete, tritolo o bombe termobaric­he, dopo il loro passaggio quello che rimane è solo silenzio.

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