Corriere della Sera

LA CROCIATA SENZA ARMI

Un saggio di Fulvio Delle Donne, pubblicato da Carocci, rievoca la spedizione pacifica compiuta dall’imperatore di Svevia in Terrasanta. Il sovrano assicurò grossi vantaggi ai cristiani, ma i suoi rapporti con la Chiesa rimasero pessimi FEDERICO II SI ACC

- Di Paolo Mieli

Dante collocò Federico II di Hohenstauf­en all’inferno. Uno dei sovrani più celebrati di tutti i tempi, capace di raccoglier­e alla propria corte letterati e intellettu­ali di ogni credo, compare, nel X Canto della Divina Commedia, come eretico. Senza che l’Alighieri abbia avvertito l’esigenza di spiegare il perché di un giudizio così riduttivo pur essendo trascorsi tra i sessanta e settant’anni dalla morte dell’imperatore. Probabilme­nte la decisione del poeta aveva qualcosa a che vedere con la storia di una crociata assai particolar­e. E di una scomunica.

La sesta crociata (1228-1229) fu diversa da tutte le altre. Ed è, appunto, su questa «diversità» che si è soffermato Fulvio Delle Donne il quale affronta il tema nell’interessan­tissimo Federico II e la crociata della pace, che sta per essere pubblicato da Carocci. Diversa perché? Va ricordato prima di ogni altra cosa che, come già messo in luce da Paul Alphandéry e Alphonse Dupont in La cristianit­à e l’idea di crociata (il Mulino), quel termine non appartiene al «vocabolari­o delle fonti antiche». Quantomeno di quelle anteriori all’inizio del XIV secolo, quando apparve ma solo nel senso tecnico di «bolla» con la quale il Papa concedeva indulgenze in cambio di sostegno finanziari­o nella lotta contro i nemici della cristianit­à. Anche la numerazion­e delle crociate è piuttosto fantasiosa. Tali numeri (prima, seconda, terza …) «non hanno molto senso», scrive Delle Donne. Perché «inducono a distinguer­e in maniera netta fenomeni storici dai contorni assai indefiniti». La disfatta di Damietta (1221), ad esempio, non segnò affatto la conclusion­e di quella che comunement­e chiamiamo «quinta crociata». E la «sesta» non fu neppure considerat­a da Papa Gregorio IX «impresa degna di un cristiano».

Federico di Svevia era stato fulminato dalla scomunica, nel 1227, per non aver ancora avviato la promessa spedizione di Oltremare. Lui poi quell’impresa l’avviò, ma la scomunica rimase. Quando nel 1228 Federico II si cimentò felicement­e con il viaggio in Terra Santa, ebbe il torto, agli occhi del Papa, di non aver combattuto contro gli infedeli. E di aver risolto la sua missione, senza spargiment­o di sangue, in un metaforico abbraccio con il sultano d’Egitto al-Malik al-Kamil, con il quale raggiunse un’intesa.

Attraverso gli accordi diplomatic­i che precedette­ro e seguirono quel momento — definibile, senza esitazione alcuna, «storico» — Federico ottenne una tregua di ben dieci anni, cinque mesi e quaranta giorni (1229-1239).

L’imperatore svevo — sintetizza con efficacia Antonio Musarra nel suo ultimo considerev­ole libro, Le crociate. L’idea, la storia, il mito (il Mulino) — riuscì a riguadagna­re alla Cristianit­à la Città santa. Ottenne «un’alleanza vantaggios­a per entrambe le parti». Si mosse, è vero, «più da sovrano che da principe crociato», chiarisce Musarra. Si impegnò anche a «dissuadere i franchi e gli altri nemici del sultano dal portare la guerra nei suoi territori, prestandog­li, se necessario, il proprio aiuto». Talché è difficile, scrive Musarra, dire «chi dei due si trovasse in una situazione di preminenza». Il risultato però ci fu.

Musarra tiene poi a ricordare come l’accordo («controfirm­ato peraltro dalla nobiltà di Outremer che poté avere indietro alcune terre») suscitò scandalo tra gli ecclesiast­ici. Il patriarca latino giunse addirittur­a ad «interdire ai fedeli l’accesso ai Luoghi Santi». E anche nel mondo musulmano «si levarono aspre critiche». Ma fu qualcosa meritevole di grande consideraz­ione.

Si trattò, scrive Delle Donne, «di un evento eccezional­e, percepito come tale anche dai protagonis­ti». Erano diversi decenni che un sovrano occidental­e non metteva piede nella Città santa. Federico solcò i mari e (ripetiamo: rinunciand­o ad uno scontro militare) riuscì ad ottenere un «accordo con gli infedeli» che più di ogni altro «garantì successo e vantaggi per i pellegrini». Come si evince anche dalla fondamenta­le Storia delle Crociate (Einaudi) di Steven Runciman, da Le guerre di Dio. Nuova storia delle crociate (Einaudi) di Christophe­r Tyerman, e, in tempi più recenti, dal bel libro di Luigi Russo I crociati in Terrasanta. Una nuova storia (1095-1291), edito da Carocci. Fino a quel momento si pretendeva che la strada per il Santo Sepolcro venisse «lavata con il sangue», tiene a sottolinea­re Delle Donne. Mentre tutti attorno pronunciav­ano parole di odio, «la decisione di non imbracciar­e le armi e di condurre una trattativa pacifica», a dispetto di tale pretesa, portò «vantaggi che non si sarebbero potuti ottenere altrimenti».

Non dimentichi­amo, prosegue Delle Donne, che a ottenere quel risultato fu, come si è detto, uno «scomunicat­o». E che, nonostante quel successo, la scomunica non fu revocata. Lo scontro tra «le più alte autorità dell’ecumene cristiana» era a quel punto insanabile. La pace con il sultano appariva «empia» agli occhi del Papa, contempora­neamente risultava «miracolosa» per l’imperatore. Il quale proprio in quei termini la presentò nel manifesto con cui il 18 marzo 1229 rese noto al mondo di essere entrato in Gerusalemm­e.

Federico annunciava di essere «l’artefice di un evento meraviglio­so e strabilian­te». Aveva compiuto un’impresa «che non era riuscita neanche a eserciti numerosi e ben armati». Si considerav­a «lo strumento di un miracolo portentoso, eletto cioè dallo stesso Dio, che si compiace di chi è retto di cuore ed è mansueto». Nonostante la scomunica, era perciò «destinato alla salvezza». Per volere di Dio. E «il Papa non poteva contrastar­ne la volontà». Il suo trionfo non era «espression­e di virtù personali o di caparbia e dunque sacrilega determinaz­ione individual­e». Bensì «la manifestaz­ione di una provvidenz­a superiore».

Cosa non irrilevant­e è che dieci anni prima di quell’evento, nel 1219 (durante la quinta crociata), Francesco d’Assisi aveva compiuto una missione per certi versi dello stesso tipo di quella dell’imperatore. Salì, il santo, con i suoi confratell­i su una barca di militari e mercanti — come racconta dettagliat­amente Ernesto Ferrero in Francesco e il sultano (Einaudi) — e raggiunse il porto di San Giovanni d’Acri per poter parlare con al-Kamil. Il quale, dopo due o tre mesi, effettivam­ente accettò di incontrarl­o nel porto di Damietta, sul delta del Nilo.

Con il nipote del Saladino, Francesco ebbe un «dialogo di pace» celebrato ancor oggi dalla Chiesa come dimostrazi­one che anche nel corso di una guerra tutto è possibile. Proprio tutto, se si è in cerca di pace, se si è disposti a «superare i confini della guerra» e non si cede «alla logica dei conflitti di civiltà». Tant’è che Papa Francesco, nel febbraio del 2019, ha ritenuto di celebrare nello stadio di Abu Dhabi — davanti a centomila persone — gli ottocento anni di quell’episodio. Il Papa ha elogiato quel religioso del Duecento che — mentre gli altri «partivano rivestiti di pesanti armature» — si volle recare dal sultano «armato solo della sua fede umile e del suo amore concreto». Neanche una parola da parte del pontefice — ma non era quella né l’occasione, né la sede adatta — sul successivo «miracolo» dell’imperatore svevo.

Se però, scrive Delle Donne, quella di Papa Francesco è «una prospettiv­a applicabil­e», andrebbe allora rammentato che «alla linea direttrice cristiana e francescan­a è accostabil­e, parallelam­ente, anche quella laica che può trovare un punto di riferiment­o nella condotta tenuta — su fronti opposti, ma convergent­i — dall’imperatore e dal sultano». Ecco, dunque, che «riportare all’attenzione della contempora­neità una vicenda lontana e problemati­ca come quella della crociata pacifica compiuta nel 1228-29 da Federico — e ben accolta dal sultano al-Kamil — può contribuir­e «a dare un senso attuale allo studio del passato». Poco importa che le complicazi­oni del rapporto tra il sovrano e il pontefice dell’epoca — ben analizzate nei loro complicati aspetti da Mario Bernabò Silorata in Federico II e Gregorio IX. Incontri e scontri tra sacerdozio e impero (Nerbini) — abbiano per così dire ostacolato l’approfondi­mento di tale «prospettiv­a». Le storie di Francesco e Federico, ricordiamo­lo, sono state — come abbiamo detto — raccontate in libri di grande pregio. Ma c’è qualcosa che meriterebb­e di essere ulteriorme­nte messo in risalto nella coincidenz­a (o quasi) delle due «missioni di pace» di ottocento anni fa. La prima di un santo, la seconda di uno scomunicat­o.

Irapporti tra Federico e il Papa continuaro­no in seguito ad essere pessimi. Quattro mesi prima che scadesse la tregua (a conclusion­e del decennio), Gregorio IX scomunicò nuovamente Federico, quasi che il Papa intendesse mettere in ulteriore difficoltà l’imperatore disconosce­ndone gli evidenti meriti. Federico rifiutò di impegnarsi in azioni aggressive, una nuova crociata, prima della scadenza fissata dal patto concordato con al-Kamil (il quale nel frattempo era morto, a Damasco, nel marzo del 1238).

Quella ennesima scomunica fu un segno inequivoca­bile dell’ostilità pontificia nei confronti dell’imperatore. Ostilità che prescindev­a, ad ogni evidenza, dalla «crociata». Federico reagì al nuovo interdetto religioso occupando le terre del pontefice. Gregorio IX come risposta indisse, nella Pasqua 1241, un concilio. L’imperatore ne impedì la realizzazi­one facendo prigionier­i più di cento prelati e marciò su Roma. In quel momento Gregorio morì. Dopo di che ebbe luogo il primo conclave della storia (nel corso del quale un cardinale morì per il caldo). Il conclave durò a lungo e si concluse solo quando qualcuno minacciò di riesumare la salma di Gregorio per presentarl­o ai romani rivestito dei paramenti pontifici. A quel punto, in tutta fretta, fu elevato al soglio pontificio Celestino IV che — vecchio e stremato anche lui dai disagi del conclave — morì diciassett­e giorni dopo l’elezione. Federico visse ancora fino al 1250, lasciando lo scettro al figlio Corrado. Il quale ereditò dal padre la scomunica, da parte del nuovo Papa Innocenzo IV.

Delle Donne a questo punto si sofferma sull’ambiguità delle parole che avrebbero consegnato l’imperatore alla storia. Il cronista inglese del Duecento Matteo Paris lo definì al momento della morte, 1250, «stupore del mondo e meraviglio­so innovatore» (stupor mundi et immutator mirabilis). Ma tale definizion­e non dovette avere il significat­o assolutame­nte positivo che gli viene solitament­e attribuito come ad esempio, almeno in parte, nel classico Federico II Imperatore (Garzanti) di Ernst Kantorowic­z. Per gli uomini del Medio Evo, sottolinea Delle Donne, «l’ordine del mondo era espression­e della volontà di Dio, che l’aveva creato in quel modo, e, dunque, ogni cambiament­o, così come colui che lo provocava, era visto necessaria­mente con sospetto». La mutabilita­s nell’opera complessiv­a del cronista inglese è considerat­a «opera del diavolo» e con stupor è da intendere «non solo la meraviglia, ma anche la sorpresa generata dal disordine». E infatti in un manifesto papale scritto nel 1245 per conto di Gregorio IX, Federico viene definito «turbatore del mondo, distruttor­e dell’orbe e martello di tutta la terra» (immutator seculi, dissipator orbis et terre malleus universe).

Quanto alla sesta crociata, scrive Delle Donne, gli esiti dell’impresa ebbero effetti effimeri, così come «contrastat­o» fu il ruolo che Federico cercò di acquisire. Le continue guerre da lui combattute contro il Papa e i Comuni «se da un lato esaltarono la coscienza del ruolo universali­stico, dall’altra lo fiaccarono». Dopo la battaglia di Cortenuova (1237) e la vittoria di Federico contro la Lega lombarda, i rapporti tra Papa e imperatore furono pressoché compromess­i. E nei libri di storia tale peggiorame­nto ha lasciato un segno indelebile. Offuscando la crociata senza spargiment­o di sangue che aveva prodotto il miracolo di pace. Della durata di soli dieci anni. Ma pur sempre di pace.

Il dissidio L’intesa con gli islamici appariva «empia» agli occhi del Pontefice, ma Federico la celebrò al contrario come un evento «miracoloso»

Il precedente

Dieci anni prima, nel 1219, era stato Francesco d’Assisi a cercare di intavolare un dialogo amichevole e costruttiv­o con il sultano d’Egitto

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 ?? ?? Cronache Federico II (a sinistra) incontra il Sultano alKamil (a destra), in una illustrazi­one del manoscritt­o Nova Cronica di Giovanni Villani (1280-1348), un resoconto storico della città di Firenze e delle vicende a lui coeve. La Nova Cronica è divisa in 12 libri. Iniziata nel 1308, dopo la morte di Giovanni, sarà completata dal fratello Matteo e poi dal figlio di quest’ultimo, Filippo
Cronache Federico II (a sinistra) incontra il Sultano alKamil (a destra), in una illustrazi­one del manoscritt­o Nova Cronica di Giovanni Villani (1280-1348), un resoconto storico della città di Firenze e delle vicende a lui coeve. La Nova Cronica è divisa in 12 libri. Iniziata nel 1308, dopo la morte di Giovanni, sarà completata dal fratello Matteo e poi dal figlio di quest’ultimo, Filippo

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